Opinioni

L'EREDITÀ VIVA/2. L'insegnamento degli ultimi gesti. La salvezza che passa dalle domande

Alessandro Zaccuri venerdì 1 marzo 2013
L’ uomo delle risposte ci ha insegnato ad amare le domande. Quelle che Gesù prediligeva, quelle che i discepoli non si stancavano di rivolgergli. Volete andarvene anche voi?, chiedeva il Maestro. E loro, per bocca di Pietro, non riuscivano a replicare se non con un’altra domanda: Signore, da chi andremo? È come una danza, che si ripete per tutto il Vangelo. Pilato che vuol sapere che cosa sia questa famosa verità. E Gesù che dalla Croce rivolge al Padre la domanda di tutte le domande: Dio mio, perché mi hai abbandonato? Accadrà ancora, qualche giorno dopo, sulla strada per Emmaus, quando lo Sconosciuto si avvicinerà ai discepoli e inizierà a interrogarli: di che cosa parlate, che cosa è successo? Sulle prime saranno loro a usare le domande come atto d’accusa (tu solo sei così straniero a Gerusalemme?), poi toccherà a Lui svelare, domanda dopo domanda, la loro incapacità di comprendere. Sappiamo come andrà a finire. Gesù spezza il pane e nello stesso tempo si sottrae allo sguardo dei due, che finalmente trovano la risposta giusta. Una risposta che, una volta di più, ha la forma di una domanda. Il cuore ci bruciava in petto, come abbiamo fatto a non riconoscerlo?
La vita di ciascuno di noi, in fondo, è legata a quel “come”, in attesa di quel “perché”. Per anni, anche prima che diventasse Papa, Joseph Ratzinger è stato presentato come l’uomo delle risposte. Per via della generosità con cui, già all’epoca in cui guidava la Congregazione per la Dottrina della Fede, non si sottraeva alle interviste, non importa quanto articolate e impegnative. Ma anche e specialmente per colpa del pregiudizio che si compiace delle parti assegnate. Il conservatore, il progressista, il grande comunicatore. Sappiamo bene quale ruolo fosse stato destinato al cardinal Ratzinger, sappiamo bene attraverso quale lente deformante siano stati interpretati gli atti – anche i più clamorosi e intensi – del pontificato di Benedetto XVI. 
Un copione che il colpo di scena dell’11 febbraio scorso ha gioiosamente scompaginato con un gesto di abissale e toccante semplicità. La rinuncia, certo. E insieme quell’affollarsi di domande che, in un solo istante, ha accomunato credenti e non credenti nello stesso tempo sospeso. Come è successo di nuovo ieri, nei lunghi minuti del volo in elicottero da San Pietro a Castel Gandolfo. Che cosa siete andati a vedere nel deserto?, chiede Gesù riferendosi alla folla curiosa della sorte del Battista.
Che cosa abbiamo visto, in questi giorni? Di sicuro siamo stati testimoni di uno di quei rari momenti in cui il segreto di un uomo coincide con il mistero della storia. L’uno è illuminato dall’altro, ma in modo tanto abbacinante da rendere quasi impossibile distinguere i dettagli della visione. Un pellegrino, ecco quello che abbiamo visto, perché è questa la definizione che Benedetto XVI ha scelto per sé nel brevissimo – e bellissimo – saluto finale ai fedeli. Un pellegrino come tutti, impegnato come tanti altri nell’ultimo tratto del cammino sulla terra. Uno che continua ad avanzare, a cercare, a farsi domande. Non perché le risposte non esistano, sia chiaro. Questa è l’illusione colpevole del nostro tempo, smanioso di ridurre a parodia la radicale inquietudine del Vangelo.
Con i gesti e le parole delle ultime settimane, Benedetto XVI ci ha mostrato, in maniera davvero memorabile, quale differenza corra tra salvezza e sicurezza. Sicuro è chi sfugge deliberatamente alle risposte, per paura della verità da cui sarebbe altrimenti giudicato. Salvo è chi non smette mai di interrogare, e di interrogarsi, anche a costo di mettere in discussione ogni presunta certezza. Essere cristiani è un rischio, ci ha insegnato il pellegrino Joseph Ratzinger. Un magnifico, umanissimo rischio. Grandioso, come ogni domanda che sappia incrinare la durezza del nostro cuore.