Opinioni

Trent'anni fa le stragi. La risposta alla narcomafia è globale come la sfida

Vincenzo R. Spagnolo mercoledì 25 maggio 2022

Nella moltitudine di ricordi legati all’operato del giudice Giovanni Falcone, ce n’è uno meno noto. Nel 1984 fu invitato a Torino, nell’aula del Consiglio Regionale del Piemonte, per partecipare a un convegno sul contrasto al traffico globale di sostanze stupefacenti. E nel suo intervento, con l’esperienza maturata in anni di indagini su Cosa nostra, richiamò l’attenzione dei presenti su una considerazione: «Le organizzazioni criminali non hanno problemi di confini e operano con disinvoltura in tutto il mondo», per cui «ogni ritardo nella cooperazione internazionale per la repressione del fenomeno si rivolge in ulteriori vantaggi » per loro, «che di giorno in giorno diventano sempre più efficienti e pericolose».

Da allora, sono trascorsi trentotto anni. E trenta ne sono passati da quando il tritolo mafioso fece esplodere l’asfalto di Capaci, privando il Paese di una delle più lucide intelligenze antimafia e inaugurando una stagione stragista di bombe e di sangue. Eppure, quelle considerazioni restano ancora in parte inascoltate. Lo mostrano i dati dei rapporti sul traffico internazionale di stupefacenti. Il più recente, diffuso da Europol e dall’Osservatorio europeo di Lisbona, indica come – per il quarto anno di seguito – nel nostro continente i sequestri della sola cocaina abbiano raggiunto un nuovo record, con 214 tonnellate scovate dalle forze dell’ordine nel solo 2020, per un controvalore stimato sui 10,5 miliardi di euro.

Potrebbe sembrare un successo, se non fosse che la quantità di droga intercettata è da sempre un valido indicatore di quella circolante, con una proporzione che gli investigatori più attenti stimano così: per ogni carico scoperto, altri nove la fanno franca. I lockdown a intermittenza imposti dal contenimento della pandemia non hanno fermato lo spaccio e il consumo di stupefacenti, al massimo hanno imposto ai trafficanti di reinventare modalità di circolazione, attraverso pacchi ordinati via internet o consegne a domicilio con finti rider. Per restare alla sola 'neve', 3,5 milioni di cittadini della Ue l’hanno assunta almeno una volta nell’ultimo anno. È la seconda sostanza più segnalata dagli ospedali europei e insieme ad altre droghe ha contribuito a portare a quota 5mila i decessi annui per overdose nel continente, in una fase in cui si rischia che prodotti come il crack o le metanfetamine (come il micidiale fentanyl, che negli Usa ha mietuto centinaia di migliaia di vittime) si diffondano ulteriormente. Di tutto questo si parla poco, nei giornali e negli altri mezzi di comunicazione.

Eppure il narcomercato resta fonte di profitti miliardari per le mafie nostrane, con la ’ndrangheta calabrese in testa, e per quelle straniere, che lavano capitali nell’economia legale, rilevando imprese e candidandosi, dietro prestanome, a beneficiare dei fondi legati agli stanziamenti del Pnrr. E torniamo così a quel convegno di Torino e alle parole di Falcone. Già il pool palermitano, seguendo le tracce dei piccioli ricavati con l’eroina dai Corleonesi, doveva fare i conti coi paletti di legislazioni nazionali differenti da quella italiana.

Trent’anni dopo, viviamo in un mondo globalizzato in cui le criptovalute si spostano con un clic del mouse, mentre chi indaga deve attendere i tempi lunghi di una rogatoria internazionale per poter acquisire atti di prova. Non di rado, sequestri di capitali, perquisizioni o intercettazioni disposte da giudici italiani si sono fermati di fronte alle norme di altri Stati europei. Una disarmonia in parte superata attraverso recenti direttive e regolamenti, come quello che dal 2018 consente a ciascun Stato dell’Unione di applicare i provvedimenti di congelamento dei beni, superando le difficoltà di cooperazione poste dai diversi modelli di confisca nei Paesi membri.

Se non siamo all’anno zero, tuttavia molto può ancora essere fatto per perfezionare una piattaforma penale antimafia comunitaria. Di fronte alla «crescente minaccia» di un narcotraffico «guidato da una più stretta collaborazione tra le organizzazioni criminali europee e internazionali», per dirla con Alexis Goosdeel, direttore dell’Osservatorio di Lisbona, bisogna «investire in una maggiore azione coordinata». Perfezionare gli strumenti comuni di contrasto è dunque una priorità per la Ue. «Possiamo sempre fare qualcosa», ammoniva lo stesso Falcone, auspicando che tale massima venisse «scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto». Ma anche di ogni cittadino. E, a maggior ragione, di ogni legislatore, perlomeno a livello europeo.