Opinioni

Paziente, medico e famiglia. Fine vita, la relazione di cura vale più di un comma

Felice Achilli* martedì 16 gennaio 2018

(Siciliani)

Viviamo in un tempo difficile e affascinante insieme, soprattutto in medicina. Lo sviluppo straordinario della conoscenza e della tecnologia ha consentito di raggiungere risultati assolutamente positivi, inimmaginabili solo alcuni decenni fa. Nello stesso tempo ci scontriamo quotidianamente con una disponibilità di risorse, umane e terapeutiche, non illimitate che obbligano chi ha la responsabilità della gestione della cura, a operare scelte di trattamenti che sempre più debbono essere non solo efficaci ma anche proporzionati ed efficienti (sostenibili) per il sistema. Lo sottolineava bene papa Francesco nel recente Messaggio al Meeting europeo della World Medical Association: «Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica». È esperienza di ogni medico, a qualsiasi livello operi, che la valutazione circa l’opportunità clinica di un trattamento terapeutico, dal più semplice e meno costoso sino ai farmaci e alle procedure a più alto costo, rappresenti una sfida quotidiana non semplice, soprattutto per la tipologia di malati che oggi giungono all’osservazione (ospedaliera e non), e che l’abbandono terapeutico, più che l’accanimento, rappresenti oggi il rischio maggiore. In sanità dare prevalenza al solo criterio puramente economico dell’utilizzo del minimo di risorse per rispondere al maggior numero di bisogni risulta inadeguato e potenzialmente nocivo. Il rischio di sottomettere la salute all’economia è oggi assai più che un problema teorico. Tale esigenza 'economica' costituisce un elemento non secondario nelle scelte che riguardano proprio quella popolazione che consuma la più elevata percentuale delle risorse sanitarie.

Il malato dovrà fare il proprio cammino, dovrà affrontare il suo problema secondo le possibilità concesse dalla malattia che ha, ma egli pone a chi lo assiste – a tutte le persone che entrano in rapporto con lui – domande di aiuto, di cura, fino alla ineludibile domanda sul significato di ciò che gli accade. Per stare di fronte alla sofferenza degli uomini occorre mettersi in gioco personalmente tenendo presente anche questa domanda ultima. Proprio perché la cura sia adeguata occorre che la medicina non dimentichi questo livello dell’umano che emerge nell’esperienza del dolore. Per questo l’accanimento terapeutico, così come l’abbandono terapeutico, sono atteggiamenti inadeguati, innanzitutto perché riducono la domanda del malato: tentano di soffocarla con l’attivismo titanico o con il sottrarsi alla relazione di cura.

Tutto questo rimane drammatico, richiede continue decisioni e verifiche, e va affrontato caso per caso. Cercare di 'normare' una relazione di cura con una legge più che contribuire a riaffermare la necessità di un consenso sempre più consapevole del paziente sino alla possibilità di rifiutare o interrompere i trattamenti finisce per sancire una frattura insanabile tra chi cura e chi è curato, legati invece non tanto da un 'interesse' se pur asimmetrico ma dalla stessa domanda di significato, il cui affronto è decisivo per vivere ciascuno il proprio percorso umano. C’è come una tentazione mortale a cui chi sceglie la cura dell’uomo malato come propria 'missione' non deve cedere: la presunzione di autoreferenzialità della medicina, e la sostituzione del principio della responsabilità con quello della regola, con conseguente riduzione del medico a applicatore di protocolli e di prestazioni tecniche. Negli ultimi 20 anni ciò che è veramente cambiato è l’idea che ogni aspetto del comportamento individuale debba essere sottomesso a una regola, convinti che ciò sia l’unico modo di tutelare la bontà dell’agire umano. Ne deriva un eccesso normativo, a tutti i livelli, fino a implicare la giurisprudenza di cui la legge sul biotestamento è solo l’ultimo esempio. Ma la realtà clinica ci chiede ben altro. La sfida che ogni giorno ci viene proposta dall’incontro con l’uomo sofferente ci costringe a esporci, a prendere una posizione, a entrare realmente in rapporto con l’altro. Papa Francesco ci indica un percorso che sfida ognuno, indipendentemente dal suo credo: «L’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accomuna, e proprio lì rendendoci solidali».

Non crediamo che la legge approvata in Parlamento cambi sostanzialmente la vera sfida che le professioni sanitarie hanno davanti a loro, non solo relativamente alle cure di fine vita, ma in generale nella relazione medico-paziente: la necessità di un’esperienza umana integrale nel proprio lavoro. È innegabile tuttavia che essa inutilmente irrigidisce i rapporti tra medico, paziente e parenti/tutori, aumentando il rischio di conflitti, ed è per questo potenzialmente dannosa. A tale proposito sarebbe opportuno almeno introdurre, come sostenuto dagli ambienti cattolici e riconosciuto dalla stessa ministra della Salute Beatrice Lorenzin, l’obiezione di coscienza nel caso il medico non sia d’accordo con le disposizioni di fine vita o con le decisioni dei parenti/tutori. Invitiamo tutti i professionisti a compiere ogni sforzo per riportare l’attenzione di tutti sulla vera natura del rapporto che costituisce tutte le professioni sanitarie (di cui il fine vita è solo un parte), perché solo in tale relazione meglio possono essere prese tutte le decisioni nella ricerca, umile, del vero bene per ogni uomo.

*presidente Medicina e Persona