Opinioni

Nella società civile e nelle imprese i veri pionieri dello sviluppo. La piccola Italia del fare che cambia prima delle norme

Paolo Preti giovedì 29 marzo 2012
​Il premier Mario Monti afferma spesso di voler cambiare il modus operandi degli italiani, perché anche così si può misurare l’efficacia e l’incisività dell’azione di un governo. Come dargli torto, quando si riferisce ai comportamenti deteriori ed elusivi o a certe abitudini incrostate. C’è, però, anche una parte consistente – più in termini simbolici che numerici – del Paese, che da sempre precede con le proprie concrete scelte operative l’azione dei governi, adottando in via volontaria modalità di azione che poi, anche dopo parecchi anni, diventano sentire comune e, ogni tanto, leggi.Il primo esempio che mi viene in mente riguarda la valutazione della didattica e della ricerca, che in qualche università esiste da quasi vent’anni e che oggi sta per diventare patrimonio comune dell’intero mondo accademico nazionale. I battistrada, si dirà, ci sono sempre stati e, auguriamoci, sempre ci saranno. Vero. Ma è bene sottolineare che questi "pionieri" operano molto spesso nella cosiddetta società civile, quasi mai nel "pubblico". Anche in economia e anche in tempi di crisi.Un altro esempio riguarda la flessibilità nel mercato del lavoro. Si discute da anni di articolo 18, ma a garantire in modo innovativo il posto di lavoro a chi ha un contratto a tempo indeterminato ci stanno pensando, ben prima e ben oltre la legge, sempre più imprese. C’è quella che, in presenza di difficoltà, firma un accordo con i sindacati in cui si impegna a mantenere costante l’occupazione, ma con un orario di lavoro ridotto in alcuni mesi dell’anno a fronte di una retribuzione oraria maggiorata e senza ricorrere alla cassa integrazione. E c’è l’altra impresa che, con ottimi risultati maturati anche nell’ultimo difficile anno, si impegna a garantire il posto di lavoro a tutti i collaboratori per i prossimi tre anni in cambio di una loro rinuncia a premi e aumenti non ancora pattuiti. O quella, ancora, che annuncia assunzioni a tempo indeterminato, ma con stipendi che per i primi quattro anni sono decurtati del 20%.Anche nella catena distributiva, ed è l’ultimo esempio, avvengono cose interessanti. La grande distribuzione ha visto diminuire lo scorso anno il proprio fatturato del 3%, gli esercizi di medie dimensioni tendono a essere assorbiti dai grandi, mentre riprendono vigore i negozi di prossimità, dati fino a poco tempo fa per spacciati. E chi c’è, in molti casi, dietro queste piccole attività commerciali "sotto casa", se non persone che, espulse dal mercato del lavoro, invece di aspettare il sussidio di disoccupazione hanno tentato la strada dell’attività imprenditoriale? Ci si deve allora augurare che la ponderata assunzione del rischio produca per queste persone buoni risultati, premiandone l’iniziativa.C’è, dunque, un’Italia che è già cambiata, che è abituata ad anticipare nei comportamenti l’evoluzione del Paese. Ed è anche a quest’Italia, quella delle piccole imprese e dei suoi migliori imprenditori, che i governi – soprattutto se tecnici – dovrebbero ispirarsi per trasmettere all’altra Italia la necessità e la passione del cambiamento. Non solo teorie, ma soprattutto esempi, possono aiutare in questo difficile compito.