Opinioni

La guerra. La paura tra il popolo in Russia: «Ma non doveva durare poco?»

Raffaella Chiodo Karpinsky giovedì 22 settembre 2022

Poliziotti in azione durante le proteste a Mosca contro la mobilitazione parziale annunciata da Putin

Anche prima della giornata di ieri, alcuni segnali lasciavano presagire che in Russia qualcosa si muove. Nonostante la diffidenza di osservatori, esperti e media, che spesso ignorano i dissidenti russi, questo ambito esiste e si agita ottenendo talvolta visibilità. Quanto, e soprattutto quando, si potrà determinare un cambiamento è difficile stabilirlo. Anzi, è impossibile. Un salto di qualità c’è stato dopo l’annuncio di Putin sull’escalation bellica. Secondo l’organizzazione non governativa Ovd-Info, oltre 500 persone sono state fermate alle manifestazioni che si sono svolte in diverse città russe contro la mobilitazione 'parziale' dei riservisti da mandare a combattere in Ucraina. E i primi commenti apparsi sui social indipendenti insistevano sul fatto che il presidente negava lo stato di guerra, ma poi ha convocato la mobilitazione.

La politologa Ekaterina Shulman ha rilevato che in realtà vi sono differenze significative tra il discorso di Putin e il testo del decreto. Nel primo la mobilitazione è definita solo 'parziale', nel secondo non sono indicati i parametri di tale limitazione – né territoriale né categoriale. Secondo il testo, chiunque può essere richiamato, ad eccezione dei lavoratori dell’industria militare. Il fatto che la mobilitazione si applichi solo ai riservisti che hanno qualche formazione specifica necessaria è contenuto nel discorso, ma non nel decreto. L’operazione diventa dunque 'totale', più che 'speciale'. Circola nei social il nuovo nome coniato per la mobilitazione. Mettendo una G al posto della B nella parola mobilizazia, essa diventa mogilizazia, cioè tombizzazione. Per la prima volta dall’entrata in vigore della legge che punisce l’opposizione alla guerra, sono stati lanciati appelli alla 'mobilitazione'. Non certo quella di Putin, ma il suo esatto contrario. Non solo da quello di Navalny, ma anche da altri account indipendenti. Recita così quello delle Madri: «Rilanceremo QUALSIASI azione, qualsiasi forma di protesta sul nostro canale (telegram)! LEGALI E ILLEGALI per evitare la morte per i nostri figli! Non lasciamo che vengano coinvolti in questa guerra! Questa è la morte! Morte feroce, ignobile, una disgrazia! È ora di difendere i nostri figli! Che Dio ci aiuti!». Il gruppo Vesna: ha lanciato lo slogan «No alla tombizzazione », invitando a protestare nelle piazze di tutte le città.

Alla base dell’escalation delle ultime ore ci sono forse anche i fatti delle scorse settimane, che hanno intaccato l’immagine del potere. La ritirata dai territori 'conquistati'; le salme dei soldati e i mutilati che tornano dal fronte; le difficoltà di reclutamento dei soldati; il continuo rinvio del referendum; l’impatto delle sanzioni e forse il più ostico dei punti, che già c’era ma che diventa evidente: l’apatia della maggioranza della popolazione. Lo smacco per la riconquista da parte degli ucraini dei territori occupati, si è tradotto in una nervosa gara allo scarico di responsabilità. È lontano l’entusiasmo patriottico dei primi giorni. La «Z» a Mosca era già sparita, nella periferia della Russia è più diffusa ma non 'trascina' e nessuno si è mai affezionato a questa lettera che non fa parte dell’alfabeto russo.

Pure il cittadino russo più convinto inizia a chiedersi: «Ma non doveva durare pochi giorni? Perché tutti quei morti se ci aspettavano a braccia aperte? ». Il secondo punto è l’effetto dei tanti morti e mutilati che tornano dal fronte ed entrano dritti delle case, nel cuore della vita straziata delle famiglie. Le cifre ufficiali sono messe in dubbio non solo dagli ucraini. Nei media locali rimbalzano testimonianze di madri, mogli. Come quella del giovane della regione di San Pietroburgo, che prestava servizio a Vyborg, tranquilla cittadina di confine con la Finlandia: era rientrato nell’esercito perché non trovava un lavoro, voleva un mutuo per la casa e sposarsi, ma non tornerà più. Vicende comuni accompagnate da una propaganda sempre meno efficace. Cerimonie, funerali e immagini che rimandano ai caduti per l’occupazione sovietica in Afghanistan, alla Cecenia e a quelli statunitensi per il Vietnam o l’Iraq.

Nonostante l’investimento del regime di Putin nel manto di eroismo, e le ricompense per i familiari dei caduti, è la motivazione ad apparire sempre più debole. La storica associazione delle Madri dei Soldati conosce bene questo stillicidio che dall’Afghanistan ad oggi l’ha vista sostenere le donne per avere notizie dei figli o salme su cui piangere. Dall’inizio di questa guerra Putin sa che questa è una spina nel suo fianco. Come rifornire di nuove leve l’esercito era già un problema. Questi quasi sette mesi di conflitto hanno avuto diverse fasi e caratteristiche. Prima i giovani di leva impreparati che pensavano di essere partiti per fare esercitazioni. Poi le reclute, tra cui tanti burjati ed altre minoranze etniche e infine il reclutamento di detenuti. In cambio di 6 mesi di servizio in Ucraina, l’amnistia. Il più volte annunciato, e poi rinviato, referendum nelle zone occupate è stato un’arma a doppio taglio: esibito come prova della coerenza dell’operazione speciale, poi rinviato alle elezioni amministrative del 10, 11 e 12 settembre scorsi, poi un ulteriore slittamento. Tutto questo ha fatto intendere che il controllo della situazione non c’è. Fino alla convocazione improvvisa per venerdì.

Nonostante i video diffusi dalla propaganda al grido di «La Russia è qui per sempre!», i dubbi hanno preso forma e hanno cominciato a consolidarsi. Un referendum rimandato varie volte perché non ci sono le condizioni per farlo, è un segnale di vulnerabilità del governo. Se questo accade dopo la ritirata delle truppe di Mosca e la riconquista da parte degli ucraini, il segnale diventa ancora più forte. Il cittadino russo assiste e trae le sue conclusioni. Pure questo spiega la repentina forzatura delle ultime ore. A tutto questo si aggiunge l’effetto delle sanzioni. Checché se ne dica, l’impatto delle misure economiche si fa sentire anche nella vita quotidiana dei russi. Alla riapertura delle scuole le famiglie fanno i conti con l’aumento dei costi per grembiuli, quaderni, diari e biro. Ma a giocare un ruolo rilevante è un altro elemento, forse il più ostico, presente anche prima della guerra, ma che ora diventa sempre più significativo: l’apatia.

La lettura della politologa Ekaterina Shulman, una delle voci più seguite della Radio 'Eco di Mosca', in esilio in Germania, sintetizza efficacemente la tendenza dell’opinione pubblica russa. Sostiene che al netto delle persone che eroicamente si oppongono alla guerra, un serio ostacolo per Putin è proprio l’apatia di buona parte dei russi. Se da un lato non c’è stata una sollevazione popolare contro la guerra, nemmeno c’è sostegno alla guerra. Quando si abitua il popolo a non esercitare diritti e doveri di cittadinanza attiva, il sistema finisce per ritrovarsi il popolo contro. Kiril Martynov, direttore della Novaya Gazeta Europa, ha scritto: «Con la mobilitazione, Putin ha dichiarato guerra al suo Paese». Se come dice Dmytro Gordon, giornalista ucraino con milioni di follower russi e ucraini, «questa è una guerra che interessa solo a Putin», chi sarà disposto a seguirlo nel suo entourage e, soprattutto, nel popolo?