Opinioni

L'Egitto rischia di tornare indietro. La mossa del Faraone

Riccardo Redaelli sabato 24 novembre 2012
Uno degli aspetti più detestati dai popoli arabi prima dei recenti sommovimenti politici era l’assoluta discrezionalità degli au­tocrati che li governavano, svincolati da ogni potere indipendente che ne frenasse l’arbi­trio. Non a caso il soprannome di Hosni Mu­barak era quello di 'Faraone'. Con la cosid­detta primavera araba, si è pensato che anche nella sponda sud del Mediterraneo attec­chisse finalmente quel concetto di bilancia­mento e controllo incrociato fra poteri che sta alla base della democrazia.
I segnali che arrivano ora dall’Egitto del pre­sidente islamista Mohammed Morsi non so­no molto incoraggianti. Proprio nel momen­to in cui Washington riconosce esplicitamente il ruolo del Cairo quale cardine di un 'nuovo' Medio Oriente, proprio mentre il leader egi­ziano viene indicato quale artefice e garante della difficile tregua fra Israele e i palestinesi di Gaza, ecco il preoccupante colpo di mano sul fronte interno. Una concomitanza che non sembra casuale: avendo appena finito di elo­giarlo e di sottolineare la necessità del suo aiuto, come può ora l’Occidente attaccarlo per le imbarazzanti decisioni che umiliano la fragile e incompiuta democrazia egiziana? Eppure, dovremmo farlo: con le decisioni di questi giorni, Morsi sembra volersi atteggia­re a 'nuovo faraone', secondo l’amaro com­mento fatto da Mohammed el-Baradei, a ca­po del fronte liberale. I decreti e le leggi pre­sidenziali non potranno più essere impugnati, la magistratura viene di fatto asservita al po­tere esecutivo e, soprattutto, si danno al pre­sidente poteri ambigui e discrezionali per «preservare la rivoluzione e la sicurezza na­zionale ».
Dato che anche le Forze armate sono già sta­te normalizzate, sembra che l’Egitto si in­cammini nuovamente verso una china già percorsa troppe volte, di svuotamento pro­gressivo e sostanziale delle istituzioni dello Stato a vantaggio del reggente di turno. A dif­ferenza di altre volte, vi è oggi tuttavia una reazione di parte della popolazione, che è tor­nata a protestare nelle piazze, attaccando se­di del partito al potere. Vedremo se ciò favo­rirà una mobilitazione delle forze non isla­miste in vista delle elezioni parlamentari.
A chi si stupisce di questa deriva, tendenzial­mente plebiscitaria, giova forse ricordare che Morsi segue l’impianto ideologico dei Fratel­li Musulmani, ancorati alla visione della po­litica e dello Stato formulata – nella prima par­te del XX secolo – dal loro fondatore Hasan al-Banna. Per quest’ultimo, era fondamentale che il popolo scegliesse la sua guida; ma una volta eletto il leader, va seguito, fintantoché questi rispetti la Legge religiosa.
Tutte le at­tenzioni occidentale per pesi e contrappesi costituzionali sono pressoché assenti; la so­cietà è vista come un corpo in cui le differen­ze e le diversità politiche sono percepite co­me Fitna, come una frattura. Ma probabilmente vi è anche una lettura più personale: Morsi era tutto sommato una se­conda scelta per i Fratelli Musulmani; non il loro uomo di punta.
Come già successo con al-Maliki in Iraq, una volta salito al comando, sta cercando di massimizzare il potere attor­no alla propria figura, anche per emergere co­me leader indiscusso della fratellanza. In questo scenario, vanno aumentando i ti­mori della forte minoranza dei cristiani. Uno dei consiglieri del presidente, il copto Samir Morqos, si è dimesso per protestare contro questo vulnus che indebolisce le speranze di vera democrazia e che rende ancora più cu­po il futuro della comunità. Non che Morsi sia anti-cristiano: egli si limita a seguire il pen­siero di al-Banna, secondo cui i copti hanno ogni diritto a vivere in Egitto come dhimmi , protetti dal potere fino a che rispettano i pat­ti e accettano le limitazioni previste per i non­musulmani. Un 'radioso' futuro di cittadini di serie b, protetti dalla mutevole benevolen­za del nuovo aspirante faraone.