Opinioni

La lezione della storia (e di Manzoni) e la libertà responsabile dei figli di Dio

Marco Tarquinio mercoledì 8 aprile 2020

Caro direttore,
a chi, come qualche intellettuale e certi politici, ha chiesto di riaprire alla partecipazione dei fedeli la Messa di Pasqua, bisognerebbe suggerire di andare a rileggere le pagine del 32° capitolo dei Promessi sposi in cui Manzoni, rievocando la peste del 1630, ricorda l’infausta decisione, sollecitata dall’autorità civile, di fare «una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo». La richiesta, avanzata dai decurioni, fu in un primo momento respinta dal cardinal Federigo, timoroso che «il radunarsi di tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio». Ma, dopo qualche settimana, l’insistenza dei decurioni «che il voto pubblico secondava rumorosamente» ebbe la meglio. Per la verità, il cardinale tentò a lungo di resistere. Ma, alla fine, «il senno di un uomo contro la forza dei tempi e l’insistenza di molti» dovette soccombere: «Cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione» e che le reliquie di san Carlo rimanessero per otto giorni esposte sull’altare maggiore del duomo. Cedette alla tirannia dello spirito del tempo. E su questa debolezza di quel buon cardinale, Manzoni sospende ogni giudizio: «Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano». Dunque, la processione si fece: uscendo all’alba dal duomo, con una lunga schiera di popolo, di clero e di autorità; e con al centro la cassa con le reliquie di san Carlo. La processione passò per tutti i quartieri della città, fermandosi a ogni incrocio e tornando in duomo solo verso mezzogiorno. Tutti ricordiamo le conseguenze di quel concorso di popolo; «ed ecco che, il giorno seguente... le morti crebbero in ogni classe, in ogni parte della città, ad un tale eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima». Non spetta a me dire se gli uomini di Chiesa di oggi siano più o meno pii del cardinal Federigo. Certo, sono più saggi. Se è vero che il presidente della Cei, il cardinal Gualtiero Bassetti, ai richiami del moderno populismo, che vorrebbe evocare i sentimenti religiosi contro le decisione dell’autorità statale (ma probabilmente anche contro la Chiesa e il Papa), dichiara che «L’impossibilità di poter partecipare alla messa di Pasqua» è «un atto di generosità. È un nostro dovere il rispetto verso quanti, nell’emergenza, sono in prima linea». E l’arcivescovo di Monreale Pennisi ricorda che «la fede non è un amuleto». E se molti sacerdoti, in ogni parte d’Italia, dichiarano, in queste ore: «Noi preti rispettiamo le leggi». Forse anche coloro che, come me, per propria formazione culturale, non amano i regimi concordatari tra Stato e Chiesa, devono riconoscere, tra gli effetti benefici del Concordato, questo senso di responsabilità e lealtà verso lo Stato italiano, questa sintonia tra autorità di governo e religiose. O, più semplicemente, tutti, credenti e non credenti, capiamo che l’autorevolezza morale della Chiesa ha, oggi, pilastri molto più possenti nella indimenticabile preghiera solitaria di Francesco in piazza San Pietro deserta piuttosto che nelle processioni milanesi ricordate dal Manzoni.

Paolo Borgna

Caro amico, quando la storia diventa anche grande pagina letteraria dovremmo avere un motivo in più per considerarla «maestra di vita » e incidere certe lezioni nella memoria personale e collettiva... Ma evidentemente, come lei con garbo ci rammenta, neanche l’arte di Alessandro Manzoni basta a qualcuno per comprendere che lume della fede e della ragione illuminano lo stesso cammino o, come in questi giorni di gravissima emergenza sanitaria, le stesse forzate e sagge soste. Certo, però, anche riaprire i “Promessi sposi” può aiutare a capire meglio ciò che si sta scrivendo nella cronaca che pure noi di “Avvenire” stiamo facendo. E nella quale appare evidente che per amare e servire Dio, e certamente Dio incarnato e rivelato in Gesù, bisogna saper amare le persone, soprattutto le più fragili, e servirle nella condizione data. Ognuno per la sua parte. Una condizione che oggi, anche per noi cattolici, consacrati e laici, è quella della lotta contro una violenta e contagiosissima malattia e delle responsabili privazioni che per questo motivo ci sono chieste e che ci autoimponiamo. Una condizione nella quale la collaborazione contro il male e per realizzare il bene comune tra Stato e Chiesa, tra autorità civili e comunità cristiane è preziosa ed essenziale in Italia e in tutto il mondo. Per questo, caro amico, faccio fatica a considerare certe suppliche mediatiche, alcune battute politiche e isolatissime pseudo–iniziative senza criterio e senza vera pietà popolare (come le impossibili “processioni” annunciate da abituali organizzatori di truci cortei e odiosi picchetti, che sono tutta un’altra cosa). Capisco chi soffre in silenzio, non chi sbandiera, “sloganeggia” e persino inveisce. Sarò poco caritatevole (e, davvero, non vorrei mai esserlo), ma mi sembrano parole e atti più mirati a far parlare di sé che a parlare con Dio e di Dio, più pretese di “liturgie” autoreferenziali che celebrazioni di una generosa adesione a Cristo, nei giorni della sua Passione e Resurrezione. Credo, caro amico, e l’ho già detto e scritto che per tanti cristiani questo tempo di limitazione della libertà di movimento e di culto e di digiuno eucaristico, ma anche di intensa preghiera personale e comunitaria, di comunione spirituale secondo l’insegnamento della Chiesa e di esercizio di una faticosa dedizione all’altro – familiare, vicino, concittadino, fratello e sorella in umanità... – rappresenti un’occasione persino provvidenziale per ricomprendere, nel profondo, il senso della nostra fede e il valore del Pane consacrato. E per confermare che la fedeltà e la libertà dei figli di Dio non è feticismo, non è anarchia e mai, proprio mai, è indifferenza per l’altro e strumentalizzazione dell’Altro.