Opinioni

Riforma «inclusiva». Qualità delle istituzioni, leva che ribalta il piano inclinato

Flavio Felice e Fabio G. Angelini sabato 8 novembre 2014
Ese la sofferenza economica che da decenni insiste sul nostro Paese, piuttosto che una crisi, fosse un declino, dapprima lento e via via sempre più rapido e travolgente? In tal caso, dovremmo interrogarci se le analisi macroeconomiche riescano a comprendere appieno i caratteri reali del problema economico italiano. Dovremmo, per di più, interrogarci sull’efficacia di misure anticicliche stile 80 euro e Tfr in busta paga.  Da quarant’anni si parla impropriamente di 'crisi' e si continuano a curare i mali che affliggono l’economia italiana come se si trattasse di un malore improvviso e violento. Dalle nostre parti l’effetto subprime è stato decisamente modesto, eppure lì dove si è generato e ha prodotto disastri economici e finanziari inenarrabili, cioè soprattutto negli Usa, il sistema produttivo ha ripreso a funzionare a pieno regime. Il debito pubblico italiano, negli ultimi quarant’anni, è invece sempre cresciuto, e nessuno ha rispettato l’impegno di incidere sulla macchina infernale che lo produce. Cosicché, mentre la Germania e i Paesi del Nord Europa corrono, o almeno procedono, noi siamo al palo e chiediamo alla signora Merkel, cancelliere tedesco, di non essere spietata, di essere solidale e di non dimenticare il vincolo europeo. Ebbene, il vincolo europeo primariamente consiste proprio nella gestione responsabile delle finanze pubbliche e nella possibilità di creare ricchezza mediante il rigore finanziario posto al servizio della solidarietà.  Il vero dramma è che, prima ancora dell’impoverimento materiale (per quanto drammatico e desolante), siamo costretti a registrare un impoverimento culturale e morale che sinora non ci ha consentito di guardare in faccia la realtà e di reagire per invertire la rotta. Ma davvero, dopo gli '80 euro', qualcuno può credere che il Tfr in busta paga possa invertire o quanto meno contribuire a invertire la rotta verso il baratro? Tutte queste misure anticicliche – di vago sapore keynesiano per di più, a parere di chi scrive, fuori stagione – non fanno altro che distoglierci dal problema strutturale del nostro sistema Paese. E perciò, paradossalmente, possono aumentare la velocità del declino. Per favorire la crescita, la leva – il driver  – su cui intervenire non può che essere la qualità delle istituzioni.  Per attrarre gli investimenti servono, infatti, riforme semplici ma coraggiose, in grado di affrancare l’Italia dalla trappola delle «istituzioni estrattive» (che servono ristrette élites tese ad accaparrarsi il reddito e la ricchezza di un Paese) e dalla palude del circolo vizioso che queste producono, perpetuando l’ingiustizia sociale dovuta alla «legge ferrea delle oligarchie».  Occorre, dunque, una politica che individui puntualmente le priorità, leggi che dettino procedure amministrative certe, snelle e trasparenti, un’amministrazione responsabile, refrattaria alla corruzione e immune dallo spreco di denaro pubblico. Per seguire questa strada, che il premier ha mostrato di avere ben presente, il governo Renzi può e deve guardare anche al mercato globale dei capitali, individuando i settori strategici su cui puntare per attrarre investimenti (a nostro avviso, le cosiddette 'economia verde' ed 'economia del benessere', le infrastrutture, il turismo, i beni culturali) e, settore per settore, gli elementi essenziali per aumentare il grado di attrazione del nostro Paese. Sulla base di tale analisi, attraverso l’adozione di Testi Unici, il governo dovrebbe avviare un coerente piano di reingegnerizzazione delle relative procedure amministrative, di razionalizzazione del riparto delle competenze e di creazione di gruppi amministrativi altamente specializzati e focalizzati sul raggiungimento di elevate performance in termini di crescita e di innovazione del Paese. Sembra questo il modo più serio e costruttivo per invertire la rotta e dare speranza a quei milioni di giovani e di lavoratori che, più di altri, sono vittime di un declino che non ci decidiamo a chiamare per nome.