Opinioni

La grande transizione/8. Non consegnarsi al successo

Luigino Bruni lunedì 23 febbraio 2015
​Le organizzazioni, le comunità, i movimenti sono organismi viventi: nascono, crescono, muoiono, si ammalano, si curano. Una malattia, che domenica scorsa abbiamo chiamato "auto-immune", è particolarmente grave e di difficile cura, soprattutto perché i suoi primi sintomi vengono letti come segnali di successo e di salute. Come in tutte le malattie auto-immuni, anche qui i fattori che avevano fatto crescere e protetto una OMI (organizzazione a movente ideale), a un certo punto cominciano a infettare quel corpo sociale che per tanto tempo avevano alimentato. Pensiamo al tema cruciale delle strutture e delle burocrazie delle OMI. La nascita dell’organizzazione, delle opere e delle istituzioni del "carisma" sono un segno della fecondità e robustezza dell’esperienza. La loro comparsa viene vista e salutata come una benedizione e un grande segnale di fecondità. E così mentre all’inizio le strutture erano frutto e servizio della vita, perché nate da incontri, bisogni, richieste arrivate alla OMI dall’esterno, a un certo punto iniziano a essere prodotte dall’interno per anticipare futuri bisogni e potenziali "domande". Le strutture centrali e ausiliari crescono, nascono e si sviluppano burocrazie interne che assorbono una quantità crescente di energie, forze umane e spirituali utilizzate per gestire le strutture generate dal primo successo. Si sviluppa progressivamente una classe burocratica a tempo pieno, che cresce in modo ipertrofico, e questo invece di essere percepito come segnale di declino viene letto come forza e successo dell’organizzazione-movimento. Senza strutture e istituzioni i nostri ideali rimarrebbero esperienze passeggere, che non lascerebbero segno nella storia. Le strutture e le necessarie burocrazie, però, possono finire, come nel mito di Edipo re, per mangiare il padre che li ha generati - e, come nella tragedia, senza volerlo né saperlo.
Questa legge "dell’inizio dell’imbrunire dentro il mezzodì", la ritroviamo in molte realtà umane, soprattutto in quelle più grandi ed eccelse. La troviamo all’opera, ad esempio, nelle persone particolarmente dotate di talento. Lo scrittore, o l’artista, raggiunge la sua massima fioritura grazie agli incontri, alle letture che lo nutrono nella sua fase di formazione e di ascesa. È a questo punto, però, che il successo può finire per divorare il talento. Lo scrittore smette di nutrirsi di biodiversità e rassicurato e alimentato dal successo inizia a nutrirsi di se stesso, ad auto-consumarsi. Incomincia a sfogliare i libri degli altri autori partendo dall’ultima pagina, dove nell’indice delle citazioni cerca il proprio nome. Come in ogni narcisismo, s’innamora della propria immagine riflessa, fino ad affogare nel lago del proprio talento. Non sente più il bisogno di imparare, di ascoltare, di farsi mettere in discussione dalla critica. Comincia qui il declino della creatività, che all’inizio non appare tale perché convive con la crescita di fan, di lettori, di riconoscimenti e di consenso. In realtà è l’inizio del tramonto.
Ci si salva se si è capaci di accorgersi dell’inizio del declino mentre tutti e tutto parlano soltanto di trionfi, e agire di conseguenza. Se invece per accorgersi del declino si aspetta il momento in cui il sole sarà tramontato, a quel punto il processo è molto avanzato e spesso diventa irreversibile. Come nelle altre malattie auto-immuni, la cura può venire dall’esterno dell’organismo: da soli si vede soltanto il mezzodì. Sono gli altri che vedono di più e molto prima, soprattutto se sono dei pari e non dei seguaci e se hanno il coraggio di correre il rischio di fare la fine (molto probabile) del "grillo parlante". Qualcosa di molto simile accade alle OMI grandi e migliori, che assomigliano molto agli artisti, alle persone geniali – non ci sono al mondo realtà più creative, sublimi, esaltanti delle OMI. Il mestiere più importante dei suoi fondatori e/o responsabili è riuscire a vedere dentro il culmine del successo il suo potenziale auto-distruttivo, e comportarsi di conseguenza operando scelte organizzative drastiche e dolorose (ad esempio, scoraggiando l’omologazione dei membri, riducendo le distanze tra i leader e il gruppo, combattendo l’auto-referenzialità, non compiacendosi di sentire nei propri seguaci una eco della propria voce, favorendo l’autonomia di pensiero nelle persone...). E invece – ce lo dice la storia – quasi inevitabilmente fanno il contrario, e costruiscono organizzazioni e strutture gerarchiche per orientare tutta l’attività e tutta la persona di tutte le persone al potenziamento e allo sviluppo di quei successi e consensi.
Come salvarsi da questi tristi esiti, che si auto-generano, e che nessuno vorrebbe? Come riuscire a non innamorarsi dei propri successi e così auto-condannarsi alla sterilità? Quasi tutto dipende dalla capacità dei leader di non commettere un errore, tanto comune quanto fatale: il riduzionismo identitario. Si commette questo errore quando i responsabili, al fine di orientare tutte le energie morali dei membri verso gli scopi dell’organizzazione, chiedono il monopolio sulle persone. Creano individui "a una sola dimensione" identitaria, riducendone, spesso senza volerlo, la complessità antropologica e motivazionale. Si dimentica che ogni persona, soprattutto se di qualità, è eccedente rispetto alla mission dell’organizzazione o del movimento, per quanto grande sia. Sta qui la vera dignità di ogni persona, che è più grande di ogni paradiso che le si promette.
L’importanza di evitare questo errore vale per ogni OMI, ma è decisiva nelle comunità spirituali che per loro natura vivono di persone che hanno una vocazione identitaria dominante, ancorata ad un "per sempre". Qui il rischio grave è non riconoscere che l’identità dominante non è mai l’unico asse della persona, e che la sua fioritura dentro e fuori la OMI dipende dal gioco e dalla mutua fertilizzazione delle molte dimensioni di cui è composta la sua vita. Vale anche qui il paradosso della gratuità: per far sì che le persone possano fiorire e così arricchire l’organizzazione, se stesse, il mondo, occorre non possederle, non usarle, non consumarle, non strumentalizzarle, neanche per i fini più nobili. Ogni seguace di un "carisma" cresce bene se trova il suo modo personale di corrispondere alla vocazione che ha ricevuto, se trova e coltiva il suo proprio "carisma" dentro quello che lo precede. Chi deve evitare l’errore del "monopolio" sono tutti i componenti di una OMI, ma in primo luogo i suoi responsabili, che non devono assecondare tali tendenze anche quando sono richieste dalle stesse persone che arrivano in cerca di identità forti e totalizzanti; perché se le assecondano, si ritrovano presto con persone depotenziate, che col passare degli anni perdono ricchezza antropologica, morale, spirituale. Ovviamente tutti questi esiti sono non-intenzionali, e quindi difficilissimi da vedere e da curare – e per questa ragione è importante parlarne.
Quando, invece, questa gratuità e castità organizzativa mancano, le persone con vocazioni "funzionano" per qualche anno, forse decennio, ma arrivano quasi inevitabilmente a un momento di crisi radicale, dove o lasciano per salvarsi, o per salvarsi rinunciano a fiorire - il mondo degli ordini religiosi e delle comunità carismatiche ormai ce ne offre una evidenza empirica abbondante e crescente. A un certo punto, la vita le pone di fronte ad un bivio: riappropriarsi della propria vita nella sua interezza cercando una nuova fioritura al di fuori dell’OMI, oppure accontentarsi di una vita ridotta, senza più eros e desideri, anche quando questa vita ridimensionata viene accettata per virtù e fedeltà a se stessi (e magari produce anche eccellenze morali individuali, ma raramente per la OMI). Queste castità e gratuità organizzative sono molto rare e sempre difficilissime, perché richiedono ai responsabili la capacità di assistere a sviluppi di vocazioni inediti e non previsti, a toccare nuove frontiere diverse da quelle già aperte. Dovrebbero saper apprezzare e gustare non solo buone esecuzioni orchestrali di spartiti già scritti, ma lasciarsi sorprendere da nuovi spartiti, da nuove musiche, da diverse danze. Le OMI che hanno saputo vivere molte generazioni hanno saputo generare non solo buoni interpreti ma anche molti "compositori" di nuovi spartiti che sul primo motivo dominante hanno scritto nuove melodie, non di rado concerti e sinfonie, con cui hanno continuato a fare più bello il mondo e il cielo.
Infine, un grande messaggio di speranza è la possibilità – ce lo dice la storia, ce lo dice la vita – che nuovi concerti, danze e sinfonie possano fiorire anche dentro le OMI già affette dalla malattia auto-immune. Innanzitutto perché la vita è imprevedibile e più interessante delle nostre descrizioni, e allora come accade alle persone anche le organizzazioni e le comunità possono un giorno svegliarsi guarite o in via di guarigione. Inoltre, nelle realtà umane restano sempre ambiti vitali, luoghi e periferie dove alcuni "profetizzano" anche ai margini dell’accampamento. Ma è possibile salvarsi perché anche nelle situazioni più compromesse, esiste sempre una terza possibilità. Ci sono molte persone (ne ho conosciute alcune) che per dono misterioso ma reale riescono a fare un’esperienza simile a quella che Gesù propone a Nicodemo: da "vecchio" rinascere "fanciullo". Si può diventare adulti restando "bambini", si può crescere bene restando nella OMI senza diventare cinici o disincantati. E così si diventa cellula staminale capace a volte di rigenerare l’intero organismo. Questa terza opzione è sempre possibile, in tutti i contesti, in tutte le OMI, in tutte le comunità. Tutti i giorni.l.bruni@lumsa.it