Opinioni

La grande transizione/7. Il coraggio di pensare il frutteto

Luigino Bruni lunedì 16 febbraio 2015
Molte imprese e organizzazioni nascono per cogliere un’opportunità di mercato, per rispondere a un bisogno, per erogare un servizio. Altre, invece, sono l’emanazione della personalità, delle passioni, degli ideali di una o più persone, che in quella loro organizzazione mettono e incarnano le parole più alte e i progetti più grandi della loro vita. Di queste organizzazioni e comunità "altre" è piena la terra, e molte delle cose belle e alte della nostra vita si svolgono all’interno di queste organizzazioni e comunità, dove le motivazioni delle persone diventano progetti, i progetti si fanno storia, la storia si arricchisce di colori e di sapori. Queste realtà, se vogliono durare oltre la vita del fondatore, hanno un bisogno vitale di membri creativi e innovativi. Ma una volta che queste organizzazioni e comunità crescono e si sviluppano, chi le ha generate finisce per dar vita a strutture di governo che impediscono l’emergere di nuova creatività, e così danno vita al loro declino. È questa una legge fondamentale di movimento della storia: la prima creatività che genera organizzazioni e comunità a un certo punto inizia a produrre al suo interno gli anticorpi per proteggersi da nuove creatività e innovazioni che sarebbero essenziali per farle continuare a vivere. Una grave malattia auto-immune che colpisce molte organizzazioni e comunità. La sua radice sta nella cattiva gestione della paura di perdere l’originalità e l’identità specifica del "carisma" del fondatore. Per timore di annacquare, contaminare o deteriorare la purezza originaria della mission della comunità-organizzazione, vengono scoraggiate le persone dotate di maggiore creatività perché percepite come una minaccia per l’identità. E così invece di emulare il fondatore nella sua creatività si imitano le forme nelle quali essa si è concretizzata e manifestata. Si confonde il nucleo immutabile dell’ispirazione originaria con la forma organizzativa storica che esso ha assunto nelle fasi di fondazione, e non si comprende che la salvezza dell’ispirazione originaria consisterebbe nel cambiare le forme per restare fedeli alla sostanza del nucleo originario. E così tutto finisce per diventare immutabile, restare immutato, sfiorire. I sintomi di questa malattia sono molti. Quello più visibile è l’emergere di una generale incapacità di attrarre nuove persone generative e di qualità. Quello più profondo è una carestia di eros, di passione e di desiderio, che si manifesta in una accidia organizzativa collettiva. Se i desideri e le passioni dei nuovi membri vengono orientati verso le forme storiche nelle quali il fondatore ha incarnato i suoi desideri e le sue passioni, si finisce per desiderare i frutti dell’albero, non l’albero che li ha generati. Chi governa un’organizzazione e vuole che essa continui nel tempo, dovrebbe dire alle sue persone creative e giovani: «Non desiderare soltanto i frutti generati ieri che ti stanno affascinando oggi. Sii nuovo albero». L’unica vera possibilità perché un albero che ha portato buoni frutti (l’OMI, cioè un’organizzazione a movente ideale) possa continuare a vivere e a fruttificare è diventare frutteto, bosco, foresta. Esporsi al vento, e accogliere tra i suoi rami le api che spargano i suoi semi e i suoi pollini nel terreno generando nuova vita. San Francesco vive ancora dopo secoli perché il suo carisma è stato generativo di centinaia, migliaia di nuove comunità francescane, tutte uguali e tutte diverse, tutte di Francesco e tutte espressioni del genio dei tanti riformatori e riformatrici che con la loro creatività hanno fatto di quel primo albero un bosco fecondo. Non ci sono garanzie che la creatività dei nuovi arrivati porti gli stessi frutti del fondatore, e che chi li assaggia riconosca lo stesso sapore dei primi frutti, o li trovi addirittura più buoni - "farete cose più grandi di me". La certezza è invece la morte, se non si ha il coraggio di affrontare questo rischio vitale. Una OMI può morire per sterilità, ma può morire anche diventando qualcosa che non ha più nulla del DNA e degli ideali del fondatore - come sta avvenendo, per esempio, in troppe opere di ordini religiosi rilevate da imprese il cui unico scopo è il lucro o la rendita, senza più alcun rapporto col primo DNA carismatico. In ogni campo, la strada per poter continuare nella creatività fedele il sogno dei fondatori esiste, ma si trova in quel territorio meticcio fatto di rischio, fiducia, saggezza di governo, una alchimia sempre imprevedibile nei suoi esiti. La cultura e le scelte di governo hanno una specifica responsabilità in queste fasi cruciali, certamente in quella del passaggio dalla generazione fondativa a quella successiva, ma anche in quelle dove i tempi chiedono cambiamenti profondi e coraggiosi. All’origine della malattia auto-immune si ritrova quasi sempre l’errore dei dirigenti di utilizzare i membri più innovativi solo per funzioni e compiti esecutivi e funzionali, non consentendo loro di fiorire e di coltivare i propri talenti. È, infatti, qui dove si trova il cuore della patologia (e della cura). Nei primi tempi della fondazione, quelli della creatività pura, che possono durare anche decenni, le OMI attraggono persone eccellenti, portatrici di talenti e "carismi" in sinergia con quello del fondatore. La saggezza di governo del fondatore e/o dei suoi primi collaboratori sta nel far sì che le persone creative possano svilupparsi nella loro diversità, non trasformandole in ancelle al solo servizio del carisma del leader. Se, infatti, non si valorizzano le diversità e si orientano tutti i talenti migliori verso una cultura monista tutta tesa allo sviluppo dell’organizzazione, la OMI finisce per perdere biodiversità, fecondità, e si avvia al declino. Prevenire e poi curare questa forma di malattia auto-immune è particolarmente difficile, perché è uno sviluppo patologico di un processo che all’inizio era stato virtuoso e indispensabile per la nascita, crescita e successo dell’organizzazione.Nella prima fase di vita del fondatore-fondatrice, infatti, molte OMI sperimentano la forma forse più alta di creatività che l’umano conosca (la sola che gli si avvicina è quella degli artisti, cui, tra l’altro, assomigliano molto). È la stagione della creatività pura, assoluta, esplosiva, dirompente. Affinché questa grande creatività si incarni in una istituzione, c’è un bisogno essenziale di persone che realizzino, diffondano, consolidino, attuino quell’energia creativa, che incanalino quest’acqua della nuova sorgente. A tutti i membri è richiesta una cerca creatività, che però potremmo chiamare di secondo livello. È quella che si esprime nel cercare le forme, i modi, i mezzi di attuazione e d’incarnazione della creatività originaria e originale in nuove aree geografiche, in nuovi e inediti settori di attività e ambiti. Ma la prima e in molti casi unica virtù richiesta ai membri delle OMI durante questa prima fase è la fedeltà assoluta e incondizionata all’ispirazione originaria, e tutta la creatività e forza vitale viene subordinata alla fedeltà e messa, sussidiariamente, al suo servizio. Senza questo gioco di fedeltà assoluta e di creatività sussidiaria non sarebbero nati i molti movimenti spirituali né le tante comunità che hanno fatto il mondo più bello e continuano ad abbellirlo ogni giorno; come non sarebbero sorte e cresciute molte associazioni e imprese sociali generate e cresciute dal daimon di "profeti" del nostro tempo. Durante questa prima fase, il governo dell’organizzazione orienta quindi la creatività dei membri migliori verso funzioni di governo e di responsabilità "fedele". Al tempo stesso, col passare del tempo si attraggono sempre più nuovi membri con preferenze che la letteratura economica chiama "conformiste", persone cioè che traggono felicità dall’allinearsi con i gusti, i valori, la cultura dominante nel gruppo, perché sono questi i valori richiesti e necessari in questa fase di sviluppo. Ma quando il fondatore, o la generazione della fondazione, lascia, queste organizzazioni e comunità si ritrovano con membri educati solo alla fedeltà e alla creatività di secondo livello, mentre all’organizzazione in questa nuova fase servirebbe la creatività di primo livello, della stessa natura di quella del fondatore e che li aveva attratti – nessuna persona creativa è attratta da imitatori conformisti. Si precipita così in ’trappole di povertà’ che si autoalimentano. Da una parte, infatti, nei membri dell’organizzazione sarebbe essenziale quella creatività generativa e libera (di primo livello) che era stata per lungo tempo scoraggiata e che quindi non hanno. Dall’altra, quelle "virtù negative" che erano state fondamentali nella prima fase dell’organizzazione, ora creano una cultura poco vitale e dinamica che non attrae nuove persone creative, che sarebbero invece essenziali per sperare in una nuova primavera. È questa la principale ragione del perché l’arco storico della grande maggioranza delle organizzazioni ideali segue la parabola dei suoi fondatori, e il cambio generazionale ne segna di fatto l’inizio del declino. Ma il declino non è la loro unica possibilità, perché la malattia organizzativa auto-immune può essere prevenuta, o quantomeno curata, anche se l’unica vera medicina è prenderne coscienza quando il processo è ancora all’inizio. La storia e il presente ci dicono che qualche volta i movimenti fioriscono dopo la morte del fondatore, le comunità risorgono con un passaggio generazionale, l’albero non muore e si moltiplica nel frutteto. Le organizzazioni, come tutta la vita vera, possono vivere più stagioni se muoiono e risorgono molte volte. Ma per imparare a risorgere occorre prima imparare a morire. Chi invece vuol salvare la vita, la perde. È la legge della vita, anche di quella delle organizzazioni che nascono dai nostri ideali più grandi. l.bruni@lumsa.it