Opinioni

Voto anticipato. Le attese della gente e la giusta fatica che serve all'Italia

Leonardo Becchetti venerdì 3 febbraio 2017

I leader dei due principali partiti di maggioranza e di opposizione vorrebbero andare a elezioni anticipate per conquistare la maggioranza e governare con legittimazione popolare. Già sapendo però che con l’attuale sistema elettorale, basato su leggi diverse e divergenti per Camera e Senato ma entrambe di impianto proporzionale, uscirà con tutta probabilità dalle urne un risultato 'spagnolo' che non darà la maggioranza assoluta a nessuno e renderà il Paese persino meno governabile di ora. Il nuovo impasse ha subito avviato un compiaciuto dibattito sulle possibili alchimie, coalizioni, ribaltamenti infiniti che si potrebbero generare. Come se la politica fosse questo e non risolvere i problemi del Paese. Tanti cittadini che ogni giorno lavorano con fatica temendo che i loro sforzi siano resi vani da una situazione generale difficile sono sbigottiti. Si domandano se dopo mesi passati a dilaniarci sulla riforma costituzionale ci aspettano altri mesi di dura campagna elettorale e, con grande probabilità, uno scenario d’ingovernabilità che aprirà a una stagione di ulteriori incertezze e bizantinismi. Il sistema politico è di nuovo in mezzo al guado, purtroppo lontano da entrambe le sponde che potrebbero salvarci: un sistema presidenziale fortemente maggioritario dove chi vince ha salda maggioranza e governa oppure, in alternativa, un sistema proporzionale alla tedesca, dove quando le forze politiche si rendono conto di non avere da sole la maggioranza si rimboccano le maniche e si mettono insieme a lavorare su un’agenda condivisa e utile al Paese, ricreando le condizioni per l’alternanza.

Ci sono forze politiche che come sappiamo faranno campagna sull’obiettivo di sganciarsi dall’Europa, ma la situazione che stiamo vivendo fa invece venire la tentazione opposta di gettare la spugna, arrendendosi a una guida esterna, senza neanche cercare di avere voce in capitolo. Cominciamo a considerare che forse un 'commissariamento' è il minore dei mali e a desiderare, come ai tempi di Dante Alighieri, l’avvento di un «imperatore tedesco» che venga a porre ordine facendo terminare la rissosità dell’eterno conflitto tra le diverse fazioni italiane. Una classe politica veramente responsabile dovrebbe fare un discorso sincero al Paese. Dicendo che viviamo un tempo molto difficile e che non esiste nessuna scorciatoia. La combinazione di populismi, sovranismi, neoprotezionismi e la tremenda duplice sfida al nostro vecchio lavoro tutelato e sindacalizzato da parte dell’esercito di riserva di lavoratori a basso costo di Paesi poveri ed emergenti e della robotizzazione configura uno scenario difficilissimo. A questa sfida esiste una risposta 'spagnola' di brutale liberalizzazione del mercato del lavoro e di azzeramento dei costi di licenziamento che fa crescere il Pil più che da noi, al prezzo però di generare un’impennata di working poor, lavoratori senza reddito decente. L’Italia non ha scelto questa strada e le controversie sui voucher e sul Jobs Act fanno capire che non la sceglierà neanche in futuro. Il convitato di pietra dell’uscita dall’euro è l’altra opzione-miraggio paventata da alcune forze di opposizione. Senza rendersi conto dei rischi tremendi di default che un Paese come il nostro correrebbe per inseguire la nostalgia delle svalutazioni competitive in un mondo profondamente cambiato. E ignorando che mini jobs, lavoro polverizzato e precario esistono anche nei Paesi che hanno la propria valuta o non soffrono come l’Italia nell’euro. L’unica strada possibile da percorrere è dura e tutt’altro che attraente e spendibile dal punto di vista della comunicazione. E riguarda il portare l’eurozona verso la mutualizzazione dei rischi e del debito, e politiche macroeconomiche meno orientate all’austerità.

Assieme alla riforma di alcuni punti chiave del Sistema Paese (tempi giustizia) e a incentivi oculati su investimenti e assunzione di giovani. Affinando la capacità imprenditoriale di promuovere i nostri vantaggi competitivi non delocalizzabili (dalla qualità delle nostre imprese innovative fino alla valorizzazione delle ricchezze del turismo, della storia, del patrimonio artistico, culturale e naturale). Per imboccarla, dicendo la verità ai cittadini e impegnandosi con fatica e passione a realizzare ciò di cui abbiamo veramente bisogno, serve una classe politica, e più in generale una classe dirigente, che non passi la maggior parte del proprio tempo a discutere di tattiche, alleanze, giri di valzer, rivalse e regolamenti di conti... Difetto antico nella Penisola, in politica come in economia, dove le parti in lotta tra loro cercano ancora oggi di prevalere vendendosi allo straniero forte di turno. Ma invece di andare a casa il prima possibile (sostituiti da altri che, non si sa perché dovrebbero essere migliori e in condizioni di meglio fare) per non maturare il 'vitalizio' (che in realtà non esiste più, sostituito da un arcigno sistema contributivo: ma la gente ancora non ci crede), la nostra classe politica dovrebbe fare esattamente il contrario. Restare per tutto il tempo necessario, e metterci la faccia in questo momento difficile per sudarsi e meritarsi la stima dei concittadini.