Opinioni

Gender e scuola. La genitorialità non è solo questione di psicologia

Francesco D'€™Agostino sabato 24 dicembre 2016
Veramente apprezzabile, in un momento in cui i toni del dibattito sociopolitico sono spesso al di sopra del tollerabile, lo scambio epistolare tra Valeria Fedeli (nuova responsabile dell’Istruzione) e Marco Tarquinio, direttore di questo giornale. La posta in gioco non era piccola: dimostrare (da parte del Ministro) l’infondatezza di tanti timori in merito all’introduzione nelle nostre scuole di una didattica del 'gender', volta a smantellare o almeno a indebolire la differenza ontologica tra i sessi, e sottolineare (da parte del Direttore) come sia possibile e doveroso minimizzare questo rischio (che è assolutamente reale), se ci si attiene fermamente ai dettami costituzionali, cioè all’unico paradigma di princìpi e di valori che tutti dobbiamo condividere.

È un paradigma, quello costituzionale, che ci impone di batterci non per abolire le differenze tra uomini e donne, ma per combattere intollerabili e persistenti diseguaglianze tra i sessi, nel pieno rispetto, anch’esso costituzionalmente fondato, come ben avverte Tarquinio, del dirittodovere educativo dei genitori nei confronti dei figli. Tutto bene, quindi? Direi di sì, nel senso che non è frequente registrare su temi così delicati interventi così pacati e precisi. Ciò non toglie, però, che altre nubi si stiano addensando all’orizzonte, nubi di cui 'Avvenire' ha puntualmente informato i suoi lettori. Si tratta di nubi che non ingombrano il cielo della politica, ma quello, ben più delicato, della ricerca scientifica.

Alludo alla pubblicazione dell’ultimo fascicolo del 'Giornale Italiano di Psicologia', che accoglie numerosi contributi di studiosi che dobbiamo presumere competenti e informati e che sostengono, a stragrande maggioranza, che l’orientamento sessuale dei genitori non costituisce un fattore di rischio per la stabilità e il benessere psicologico dei figli. In buona sostanza, gli psicologi italiani (seguendo peraltro indicazioni già ampiamente diffuse Oltreoceano) si battono per avallare l’omogenitorialità adottiva, sostenendo che la famiglia formata da due genitori eterosessuali non può più essere considerata come l’unica configurazione di riferimento della famiglia. Di qui una chiarissima indicazione al potere giudiziario e al potere legislativo perché provvedano a legalizzare definitivamente l’omogenitorialità. Chi vuole reagire a queste indicazioni si trova davanti a due possibili strade. La prima è quella di contestarne la fondatezza scientifica, rilevando che i dati su cui si basano gli psicologi per arrivare alle loro conclusioni sono parziali e scorrettamente orientati dalle lobby gay, particolarmente potenti, oggi, sul piano mediatico.

È ben possibile che sia così, dato che molte volte in passato, scienziati, anche di gran nome, si sono lasciati indebitamente influenzare dallo 'spirito del tempo' (è ovvio che sto pensando a quanto numerosi e fallaci siano stati nel Novecento gli studi, arbitrariamente presentati come 'scientifici', per avallare una categoria ideologicamente delicatissima come quella di 'razza'). Non ritengo però che questa sia la via migliore per valutare le conclusioni del 'Giornale Italiano di Psicologia'. Credo invece che sia opportuno percorrere un’altra strada. Si tratta di riflettere se la questione dell’omogenitorialità e più in generale quella del 'benessere' dei figli allevati da una coppia gay possa essere ridotta a una mera questione psicologica. Senza nulla togliere alla serietà del lavoro degli psicologi, bisogna sottolineare che le questioni in gioco sono molto più numerose e articolate di quanto essi possono pensare, perché spaziano dalla pedagogia alla sociologia, dalla giurisprudenza all’antropologia filosofica, dall’etica alla teologia.

Abbiamo tutti a cuore il 'benessere' dei bambini, ma non dobbiamo cadere nell’errore di pensare che tale benessere dipenda esclusivamente o anche solo primariamente dal loro rapporto psicologico con chi si prenda cura di loro: questo rapporto può essere tanto splendido (non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo) quanto drammatico, ma non può in nessun caso essere autentico, se si instaura a partire dalla negazione o dalla rimozione della verità in merito alle origini biologiche del bambino e dalla banalizzazione del contesto sociale e valoriale in cui esso si trovi a crescere e a vivere. Tale contesto, anche se molti psicologi oggi sono restii ad ammetterlo, è comunque qualificato dal paradigma della differenza uomo/donna. Il fatto che la differenza tra i sessi non debba mai legittimare alcuna discriminazione sociale non comporta affatto che alla differenza tra i sessi non debba riconoscersi una decisiva valenza antropologica. Come l’antropologia non può ignorare le acquisizioni della psicologia, ma deve rispettarle e valorizzarle, così la psicologia non può pensare di avere il diritto di elaborare valutazioni antropologiche che non le competono (come ad esempio quella di sancire il tramonto di 'vecchi' paradigmi familiari e di auspicare l’avvento di nuovi paradigmi). In sintesi: è arbitraria e infondata la pretesa di valutare i rapporti genitori/figli con gli occhiali di una sola prospettiva epistemologica: gli psicologi, i cultori di tutte le altre scienze umane, i filosofi, i teologi, i giuristi sono tutti chiamati a nuove forme di riflessione interdisciplinare, di cui solo ora cominciamo a intravedere le possibili future movenze e che esigono da parte del legislatore, che voglia intervenire in un ambito così delicato, una prudenza estrema.