Opinioni

Il PD e la questione morale. La «diversità» perduta. La risposta da dare

Giorgio Ferrari giovedì 18 dicembre 2008
La valanga di avvisi di garanzia e di richieste di carcerazione preventiva a carico di numerosi fra manager e amministratori locali in Basilicata, in Abruzzo, in Calabria, a Napoli è la clamorosa manifestazione di un fenomeno la cui fisionomia e la cui portata in qualche caso si potevano intuire e – dal territorio, con gli occhi dei cittadini – probabilmente si riuscivano a intravvedere, ma che lascia egualmente senza fiato. Sta esplodendo una nuova e drammatica Tangentopoli che coinvolge soprattutto il Partito democratico. E tutti – noi compresi – abbiamo preso a parlarne come di un’enorme Questione morale.L’espressione non è scelta a caso: fu il segretario del Pci Enrico Berlinguer a farne uso – richiamandosi a Gramsci – negli anni Settanta, da un lato denunciando l’occupazione dello Stato da parte dei partiti e delle loro correnti, dall’altro rivendicando quella diversità – comunista, nel suo caso, ma di cui la sinistra in genere s’impossessò rapidamente facendone una bandiera – che costituiva il marchio di eccellenza di quell’area politica.Neppure la prima Tangentopoli, nonostante il "Compagno G" (Primo Greganti, simbolo e insieme capro espiatorio unico della corresponsabilità dei comunisti nel finanziamento illecito dei partiti) e tutte le ambiguità, i silenzi, le ammissioni elusive del Pci-Pds riuscì a intaccare a fondo lo smalto che ricopriva la "diversità" della sinistra. Che infatti uscì quasi indenne dal ciclone che tra il 1992 e il 1994 cambiò radicalmente il nostro panorama politico.Questa volta nella tempesta vi è il discendente primogenito ed erede proclamato di quella "sinistra diversa", la stessa che – già prima di chiamarsi Pd – reclamava con orgoglio la propria strutturale alterità rispetto alla cattiva politica e alla cattiva amministrazione, liquidando certi episodi di malaffare come trascurabili macchioline su un tessuto essenzialmente integro, banali episodi di periferia maturati nell’area grigia che fa da contorno a ogni potere. Cose di tal poco conto, che più alto era il rango dell’amministratore coinvolto, più ostinata era la sua riluttanza a dimettersi, anche di fronte al richiamo formale del suo leader di partito.Un’esecrabile autoindulgenza, che ieri il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro – certo non sospettabile di pregiudizi nei confronti del Pd – ha stigmatizzato sul suo giornale. Un’indulgenza che di quella diversità così ostentata ha finito per far strame, mettendo a nudo, da un lato, la triste e vecchia "normalità" presente nella nuova sinistra e, dall’altro, la sconvolgente acquiescenza della sua classe dirigente.Non possiamo sapere quale sarà l’approdo delle tante inchieste in corso. E in ogni caso non siamo noi, qui, a fare i processi. Prendiamo semplicemente atto del fatto che dalla gestione della sanità (e non solo della sanità) abruzzese, dal disastro napoletano dei rifiuti, dagli affari urbanistici di Firenze e dallo sfruttamento del petrolio lucano sono germinate vicende che coinvolgono con spietata regolarità personaggi e amministratori riconducibili al Pd.La «questione morale», dunque, si pone. Ritorcendosi sugli eredi di chi l’agitò per primo. E da essa deriva un’altra domanda, quella che si fa ogni cittadino: ma come vengono amministrate le nostre città e le nostre regioni? E perché sotto la scorza dell’«efficienza» – antico marchio di fabbrica delle "giunte rosse" – torna a emergere, insuperato, il vizio delle camarille d’interesse e della corruzione?Chi legge questo giornale sa che parteggiamo sempre, e da sempre, per una autentica moralità pubblica, per la pulizia della politica e per la trasparenza delle azioni di giustizia. E sa anche che non abbiamo mai creduto alla favola della Tangentopoli del 1992 come "lavacro" risolutivo e come automatico "passaporto per il nuovo". Oggi, come allora, ci ritroviamo a chiederci non come finiranno i nuovi processi ai politici, ma quanto e come i politici saranno capaci di dare all’Italia la rigorosa risposta che va data. Gli uomini e le donne del Pd – che a lungo, e anche a ragione, hanno incalzato altri – sono tenuti a farlo per primi.