Opinioni

L'età, la malattia e la resilienza del potere: il contagio del modello cubano. La danza macabra di Castro e i suoi fratelli

Giorgio Ferrari giovedì 10 gennaio 2013
« All’alba del lu­nedì la città si svegliò dal suo letargo di secoli con u­na tiepida e tenera brezza di morto grande e di putre­fatta grandezza ». Forse c’entra il potere ma­gico del voodoo, il tenebroso animismo di origine africana che tanta influenza riscuo­te tuttora nel mondo caraibico, forse l’inci­pit dell’Autunno del patriarca di Gabriel García Márquez è la profetica conferma dell’impensabile resilienza del potere, ma quello che sta accadendo tra Cuba e Cara­cas ha in effetti il sapore di una grandiosa danza macabra che i protagonisti – Fidel Castro e suo fratello Raúl da una parte – e i loro comprimari – Hugo Chávez e Ricardo Alarcón dall’altra – ci stanno offrendo.
Ottantasei anni Fidel, ottantadue Raúl, cin­quantaquattro anni ininterrotti al potere. E negli ultimi tempi l’ingannevole messinsce­na di un garbato ritiro dal proscenio, Fidel disarmato dagli insulti dell’età e della salu­te, Raúl con il piglio modesto del reggente pro tempore. Sembrava tutto molto verosi­mile, anche perché ai loro piedi scalpitava­no imitatori, seguaci devoti e veri e propri delfini. Come Hugo Chávez, el indio, boli­variano entusiasta e interprete diligente della lezione cubana fino a interpretarla con il piglio del perfetto etno-caudillo, lo stesso che nel 2006 portò al potere il gemel­lo politico di Chávez, quell’Evo Morales po­pulista e rivoluzionario che indossa più vo­lentieri la chompa di alpaca a righe dei co­caleros boliviani che il gessato d’ordinanza dei capi di Stato.
Senza dimenticare Ricardo Alarcón de Quesada, numero tre del regime cubano, ambasciatore all’Onu, presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo, so­pravvissuto fino a ieri a ogni epurazione, sempre un passo indietro rispetto ai fratelli Castro come un principe consorte, ma sempre inossidabile all’ombra del potere. Giovanissimo, Alarcón: ha solo 75 anni, niente a confronto dei novant’anni di José Ramón Fernández, o degli 82 di José Ma­chádo Ventura e di innumerevoli membri del Politburo cubano. Eppure per lui, il più americano dei dirigenti politici cubani, è suonata la campana di fine mandato. Se ne va, lascia – apprezziamone l’agro umori­smo caraibico – 'per raggiunti limiti di età'. E non è che l’ultimo di una lunga serie: pri­ma di lui scomparvero Camilo Cienfuegos (rivoluzionario della prima ora, precipitato con il suo Cessna all’indomani della rivolu­zione), il comandante Arnaldo Ochóa (ac­cusato di tradimento), e poi piccoli e grandi dirigenti e giovani ambiziosi, fino a Roberto Robaina e Carlos Lago, due astri nascenti (si pensava) consumatisi con la rapidità di una fiammata, e a Perez Roque, salito al vertice del favore dei fratelli Castro nel 2001 e pre­cipitato nella polvere pochi anni più tardi.
Nemmeno Chávez, il Migliore in salsa carai­bica, sfugge al suo destino, o se preferite al sinistro incantesimo che tiene in vita la di­nastia dei Castro: la malattia lo divora in u­na clinica cubana e gli impedisce perfino di prendere parte al suo insediamento a Cara­cas. Nelle tetre pinturas negras di Francisco Goya ce n’è una che raffigura Crono che di­vora i suoi figli, allegoria perfetta del terrore di perdere il potere che assedia i tiranni d’o­gni epoca. Difficile sfuggire a questa pur fa­cile suggestione. E difficile anche che, a di­spetto delle tenui modernizzazioni, del passaporto concesso ad alcune categorie, della vendita controllata di telefoni cellula­ri, del permesso di comprare e vendere pro­prietà immobiliari, qualcosa di significativo cambi davvero a Cuba. Dove un dissidente può ancora morire di fame in carcere e si può essere arrestati per un blog sgradito al regime. Fino a quando i patriarchi saranno al potere. E fino a quando continueranno a nutrirsi dei propri figli per rimanerci.