Opinioni

Giornata degli operatori sanitari. La cura è relazione e adesso si vede meglio

Giuseppe Anzani domenica 21 febbraio 2021

C’è gente che cura la gente, e vive così, per curare. A sapere chi sono, a capirli per come son fatti e per quello che fanno, forse bisogna guardarli negli occhi nei tempi di peste; quando a curare la gente si rischia la propria salute e talvolta la vita. Come accaduto da noi, giusto da un anno. Ci hanno curato a migliaia; ammalandosi a volte essi pure, e taluni morendo. Ieri è stata la loro giornata ufficiale. Memoria dei morti e ringraziamento dei vivi: un pensiero doverosamente riassunto nei messaggi del presidente Mattarella e del papa Francesco.

Letti i quali ci restano in cuore come due echi, due parole affacciate come lampi su un orizzonte ancor cupo di peste: sanità e carità. 'Operatori sanitari', vengono chiamati; e 'operatori socioassistenziali'; e a questa stregua il pensiero li vede inquadrati in un apparato. Un apparato sul quale poggia la promessa della Costituzione che fa della salute un diritto fondamentale dell’individuo e un interesse della collettività. Ma oggi, proprio per l’intreccio personalistico cui si allude, vogliamo guardare il profilo umano della gente che cura la gente, nelle molteplici storie che il tempo del Covid ci ha messo sotto gli occhi. La salute è un bene grande. La malattia un dolore. La morte uno scacco. La terapia una sfida.

La professione medica ha buona letteratura sul piano dell’ideale, e identico è l’ideale degli ausiliari. Peraltro la sanità globale è un sistema, e un sistema imperfetto rispetto agli ideali. Forse il cuore della questione sanitaria non sta nel raffinare i suoi profili aziendali, ma nel valorizzare la qualità generosa delle relazioni di aiuto. Sono queste ultime che nell’anno decorso hanno brillato in modo grande. Del resto la relazione sanitaria, la cura, è il paradigma esemplare di quei diritti che la legge proclama fondamentali, ma che non possono accadere da sé perché dipendono dalla risposta d’altra persona.

Diritti che ' in-vocano' un aiuto dall’altrui libertà; risposte che accolgono la ' vocazione' d’aiuto fatta dovere nella propria libertà. Il villaggio umano si costruisce così. Senza questa rete reciproca dell’avere a cuore il bisogno dell’altro (cioè il suo diritto a vivere secondo la dignità di persona umana) i proclami sui diritti restano parole tradite. Ciò vale non solo per la salute ma per tutti gli altri diritti relazionali; tendenzialmente per la felicità, se si osasse pensare che 'star bene' dipende prima di tutto dallo 'stare insieme'. Nella stagione sventurata del Covid, averlo appreso, se l’abbiamo capito, può essere una grazia.

Dopo la sbornia dei vecchi discorsi divisivi sull’autodeterminazione, l’invisibile nemico ha mosso la relazione di cura tra confidenza e speranza, in un incontro che ha posto sul lenzuolo molte più cose che diagnosi, opzioni, tamponi: ha fatto capire che al centro non sta la cosa ma la persona. Possiamo chiamarla solidarietà, ed è parola grande, dentro la legge che ci affratella. Ma c’è un’altra parola che allarga l’orizzonte dei doveri legali col soffio dello spirito e le sue libere infinite invenzioni, la carità. È giusto che nel titolo della celebrazione ufficiale, accanto ai camici bianchi, ci sia anche il volontariato. E ci basti saperlo ed esser grati così, senza altre sigle, come al volontariato basta d’esserci e di fare in generoso silenzio, in libertà e gratuità. In carità.