Opinioni

Reportage. La crisi economica in Giordania può destabilizzare il Medio Oriente

Antonella Napoli giovedì 19 gennaio 2023

Inflazione e tagli al bilancio alimentano il malcontento della popolazione impoverita, crescono violenze e proteste. Le tensioni si ripercuotono sui molti campi per rifugiati. Nella foto una rifugiata siriana nel campo profughi di Zaatari, in Giordania

Sguardo profondo, sorriso abbozzato, immagine sobria e rigorosa: il re Abdullah II di Giordania nelle foto esposte in ogni ufficio e attività commerciale nazionale, nei manifesti divulgativi e nelle gigantografie celebrative che tappezzano tutto il Paese, trasmette alla sua gente pacatezza e moderazione. O almeno ci prova. La popolarità del monarca resta alta, si percepisce nelle strade di Amman. Il tessuto sociale è vivo. Ma è altrettanto evidente che la crisi interna e le situazioni contingenti degli ultimi anni, dalla pandemia di Covid 19 al conflitto russo-ucraino, hanno frenato la crescita e il benessere della popolazione. Nonostante il capo di Stato abbia provato a rilanciare il regno hashemita, che guida da 24 anni, e a puntare sul futuro con iniziative ben coordinate e tese a trasformare l’economia di un popolo dall’indole risoluta e collaborativa, l’esecutivo giordano ha dovuto frenare i programmi di sviluppo e di sostegno alla produttività.

In particolare ha pesato la riduzione dei sussidi per il carburante. La decisione ha scatenato da subito la rivolta di camionisti, autisti di autobus e di taxi, che si è ben presta ampliata con il coinvolgimento di altri lavoratori del settore dei trasporti. Da fine novembre si sono susseguiti scioperi e sitin che hanno visto la partecipazione anche di altre fasce della società, particolarmente in sofferenza per il costo della vita e dei generi di prima necessità, sempre più alto. Il fattore che ha influito maggiormente è stata l’esigenza del governo giordano di applicare le misure di taglio del bilancio imposte dal Fondo monetario internazionale, riducendo gli aiuti statali che calmieravano i costi dell’energia. Le proteste si sono acuite con il progressivo peggioramento della situazione economica nel Paese. Lo scorso 15 dicembre un alto ufficiale di polizia è stato ucciso nella città meridionale di Maan negli scontri con i manifestanti. Cinque giorni dopo altri tre agenti hanno perso la vita durante un raid nel nascondiglio del sospettato assassino del loro collega.

La reazione del governo si è rivelata di estrema durezza. Le manifestazioni, in particolare dopo gli eventi di Maan, sono state represse con il dispiegamento delle forze di sicurezza antisommossa che hanno utilizzato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere la folla. Almeno 50 le persone arrestate, ad oggi, coinvolte nelle proteste che nell’ultimo weekend dell’anno hanno raggiunto anche la capitale Amman. I dimostranti bruciano pneumatici e lanciano pietre contro i veicoli su strade e autostrade, alcune sono state chiuse temporaneamente. Gli scontri più violenti si sono consumati a Zarqa, nel quartiere Al-Jabal Al-Abyad. Nell’ultimo mese e mezzo si sono susseguiti anche rallentamenti e sospensione della circolazione lungo le arterie stradali tra Amman e il Mar Morto. Le autorità hanno bloccato internet, in particolare oscurando la piattaforma TikTok per evitare la diffusione di video che potessero alimentare ulteriori disordini.

Il clima nel Paese più tranquillo del Medio Oriente è dunque incandescente ma il governo fa di tutto per ridimensionare ciò che accade per non creare problemi al settore turistico. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani temono che la repressione del dissenso crescente possa essere ulteriormente inasprita. L’uccisione dei quattro agenti sta aumentando le tensioni e la rabbia dei poliziotti verso la popolazione che protesta, favorendo azioni extragiudiziali lontane dallo sguardo di testimoni. Ma tra le fila delle forze dell’ordine c’è chi ha fatto filtrare la notizia di arresti arbitrari. La rivolta in corso nel Paese è una seria sfida per il regno di Giordania, che ha cercato negli ultimi decenni di impedire il proliferare di qualsiasi genere di malcontento.

Il sostegno occidentale e degli stati più ricchi del Golfo non sono sufficienti a garantire la solidità del regno A risentirne di più sono soprattutto i tanti profughi siriani, quasi uno ogni dieci abitanti

Ogni anno, tuttavia, ha portato nuove controversie, molte delle quali apparentemente riferite al quadro economico. Il Paese è per lo più senza sbocco sul mare, ad eccezione del sud, e non ha molte risorse naturali. La sua economia è legata in parte al Golfo e ad altre monarchie ma può contare anche su una significativa presenza palestinese sul proprio territorio. Ciò significa che il regno non ha solo un legame umano e politico con la Cisgiordania, ma anche economico. La sua complessa e altalenante evoluzione è stata profondamente influenzata e favorita dai conflitti in Iraq e Siria. Negli ultimi vent’anni la Giordania ha visto un continuo e sempre maggiore afflusso di rifugiati dai due stati confinanti. L’ultimo censimento a dicembre ha rilevato la presenza nei campi di 926mila persone assistite dalle agenzie delle Nazioni Unite.

La maggior parte proviene dalla Siria (96%), il 3% dall’Iraq e l’1% da Yemen, Sudan e Somalia. In un Paese fortemente provato dalla crisi economica, con dieci milioni di abitanti di cui quasi un milione di profughi, l’impatto delle rigorose misure del governo è stato devastante. Le famiglie giordane sono in grande difficoltà. La classe media non esiste più. Ma a risentirne di più sono soprattutto i rifugiati, per i quali la situazione è aggravata dalle leggi locali che impediscono loro di accedere alla maggior parte dei mestieri. In Giordania oltre a innumerevoli “Informal Tended Settlement” (Insediamenti assistiti informali, ndr), sono presenti quattro grandi campi di sfollati.

Il clima nel Paese più tranquillo del Medio Oriente è incandescente, ma il governo fa di tutto
per ridimensionare ciò che accade per non creare problemi al settore turistico. Il rischio che la repressione del dissenso possa essere inasprita

Quello di Zaatari, a venti chilometri dal confine siriano, è il più esteso al mondo e meglio organizzato, con 38 scuole, 52 centri ricreativi, 11 Makani (“il mio posto”, tradotto dall’arabo) dove giocano e studiano 11 mila bambini. Ci si arriva percorrendo la strada che passa attraverso la città di Mafraq, nell’estremo nord della Giordania. Prima che la Siria venisse investita dalla guerra civile del 2011 era un vero e proprio “corridoio” per il commercio e per il transito di persone. Non era raro che nei giorni festivi si partisse da Amman per andare a fare acquisti al souk di Damasco, dove le merci erano più economiche. Oggi, di tutto questo, rimane soltanto la strada.

Mafraq è diventato un luogo di frontiera, ai margini della Giordania. Il campo di Zaatari nel tempo si è trasformato nel quarto centro abitato del Paese, per numero di profughi interni e dei numerosi insediamenti informali sparsi in tutta l’arida campagna circostante. Anche se in molti sono tornati nelle città di origine, i siriani rappresentano ormai una percentuale significativa della popolazione. « La Giordania guarda ai profughi in modo fraterno, almeno ufficialmente. Non hanno mai rifiutato accoglienza a chi arrivava e ancor oggi arriva nel Paese dalla Siria meridionale, che ha una storia di legami tribali e familiari con le persone nel nord della Giordania », racconta Ashraf al Maren, cooperante della Mezza Luna Rossa impegnato in progetti sanitari sostenuti da fondi internazionali.

La Giordania, membro fondatore della Lega degli stati arabi, costituita nel 1945 con lo scopo di coordinare la politica estera e promuovere la cooperazione culturale in tutta l’area, ancora oggi riveste un ruolo chiave nelle questioni geopolitiche, favorendo il dialogo e la stabilità nella regione d’appartenenza. Ma negli ultimi mesi la situazione sembra essere decisamente cambiata. A fronte della grande sfida economica, il sostegno occidentale e degli stati più ricchi del Golfo non sono sufficienti a garantire la solidità del regno. Appare evidente che quello che a lungo si è dimostrato essere il più tranquillo degli Stati, rispetto agli altri, dell’area Mena stia attraversando una delle fasi più turbolente della sua storia recente. Una bomba a orologeria che potrebbe ulteriormente infiammare il già instabile Medio Oriente.