Opinioni

I disastri della politica demografica imposta. La Cina che non vuole i figli anche se il governo li chiede

di Stefano Vecchia venerdì 30 gennaio 2015
Dopo trent’anni di politica del figlio unico, la grande Cina fa i conti con i risultati concreti della relativa liberalizzazione della maternità. All’inizio di gennaio, a un anno dall’entrata in vigore di una iniziativa che sembrava avere il segno dell’epocalità, un milione di coppie con il requisito indispensabile di essere figli unici aveva ufficialmente presentato domanda per il secondo figlio proprio. Su un bacino potenziale di 24 milioni di nuclei, il numero di richieste è stato definito dal portavoce Mao Qunan «in linea con l’obiettivo inferiore ai due milioni annuali stabilito dalla Commissione nazionale cinese per la salute e la pianificazione familiare».   Ottimismo che contrasta con i dati diffusi a fine 2014 dalla Commissione municipale per la salute e la pianificazione familiare di Pechino, la quale segnalava come nella capitale solo 30mila coppie avessero fatto richiesta di potere concepire il secondo figlio. Non dissimile la situazione di altre grandi città come Shanghai e Shenzhen. Un sondaggio del Quotidiano della gioventù cinese, sempre alla fine dello scorso anno, aveva mostrato che su 2.052 individui intervistati solo il 24,9 per cento dei potenzialmente autorizzati aveva presentato richiesta alle autorità. 'Interessanti' le motivazioni: «costa», «richiede tempo», «un figlio è abbastanza», in linea con una società in evoluzione secondo standard collaudati altrove, ma divergenti dalle scelte politiche interne. In altre parole, la politica illiberale del figlio unico imposta dal governo alla fine ha attecchito saldandosi con una certa mentalità antinatalista importata dall’Occidente con i costumi neocapitalisti. Il portavoce Mao resta però convinto che, a regime, il cambiamento potrà portare due milioni di nuove nascite in più ogni anno nella stanca demografia del Paese. Combustibile indispensabile per evitare lo stallo di un sistema produttivo in rallentamento. Un segnale anche questo che molte direttive del potere sembrano riflettere imperativi economici e non più soltanto la volontà di controllo ideologico attraverso un partito diventato una burocrazia parallela e una lobby di privilegiati. Insomma, giri di vite sui principi ma formali aperture alle esigenze della società che coprono sovente altre ragioni. Un po’ come per i campi di lavoro formalmente aboliti, ma sostituiti da prigioni segrete, oppure per la sorte dei critici del regime, non più incarcerati per reati d’opinione, ma inviati in ospedali psichiatrici per controlli prolungati. Infine, come per la politica demografica, che da un lato lascia maggiore controllo della sessualità e della prole alle donne, dall’altra pretende di gestire la prolificità dei cittadini come uno dei tanti fattori economici.   Inevitabilmente l’economia è al centro della realtà cinese in questi anni di transizione, ma ormai la necessità di stabilizzare il Paese affianca una riorganizzazione produttiva e sociale dagli effetti imprevedibili. La bolla speculativa riguarda infatti i quattro quinti delle città, con milioni di appartamenti invenduti o sfitti perché sempre meno cinesi sono in grado di permetterseli. L’economia sommersa e la finanza parallela, da un lato, le esigenze di controllo politico, dall’altro, hanno per anni drogato i dati e le prospettive. Fornito sostanza, progetti e illusioni alla popolazione, concretizzando un progresso che nelle aspettative comuni è sovradimensionato rispetto alle possibilità reali. Con il risultato di ottenere sovente dalla popolazione risultati contrari a quelli incentivati dalle politiche ufficiali. Non conformismo, partecipazione e tensione al benessere individuale e collettivo, ma disinteresse, scetticismo, materialismo e individualismo. «Non è un segreto che il corpo femminile sia diventato un bene. Impossibile ormai bandire il business della maternità surrogata, e le tecniche di riproduzione assistita sono diventate parte della nostra vita», segnala allarmato Ai Xiaoming, accademico della provincia del Guangdong esperto di questioni femminili. Non a caso, in relazione con la pratica sempre più diffusa di cessione illegale di ovuli da parte di studentesse, la televisione di Stato riportava pochi giorni fa la testimonianza di una giovane che così facendo poteva ripagare i debiti accumulati con la sua carta di credito.   Come ricorda il professor Ai, «la crescita di questo particolare mercato mostra la necessità di arrivare a un sistema di regolamentazione complessiva basato su ampie consultazioni tra autorità mediche e esperti di differenti discipline, mediato dal governo. In realtà, l’alto numero di casi segnala che il governo esita ancora a intervenire contro queste iniziative illegali, come pure per i diritti dei bambini e delle donne e per ridurre il divario tra i sessi nel nostro Paese». Similmente a molte nazioni asiatiche, la Cina ha una tradizionale predilezione per il figlio maschio. Molte famiglie arrivano ad eliminare i feti femmine o ad abbandonare le neonate in attesa del primogenito a cui affidare la discendenza. Con il risultato che le statistiche segnalano attualmente 118 maschi ogni 100 femmine, contro la media mondiale di 103-107. Una problematica ammessa oggi apertamente perché ha anch’essa acquisito una valenza economica. Nonostante la messa fuorilegge delle tecniche di individuazione del sesso del feto, «la Cina ha il più accentuato squilibrio tra i sessi al mondo. Anche quello più persistente e che riguarda il maggior numero di persone», ricorda la Commissione nazionale per la salute e la pianificazione familiare. Mettendo in luce anche un ulteriore fenomeno. Quello delle donne che mandano campioni di sangue all’estero per potere determinare il sesso dei feti che hanno in grembo, parte di una «catena clandestina per profitto», secondo la definizione ufficiale.   Una situazione di Far West del concepimento, della maternità e dell’adozione che rischia di aggravarsi ulteriormente in un contesto che vede convergere e a volte collidere drammaticamente tradizioni, scelte demografiche fallimentari, nuove regole e libertà individuali. Introdotta nel 1979, ufficialmente per contenere la popolazione considerata eccedente rispetto alla pianificazione delle risorse, la politica demografica che consentiva un solo figlio per coppia salvo eccezioni limitate è stata superata nell’incontro del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo nel novembre 2013. La sperimentazione partita nella provincia dello Zhejiang da gennaio 2014 è stata estesa da marzo ad altre municipalità intenzionate alla piena liberalizzazione entro il 2020. Sicuramente una svolta storica. Per i critici, tuttavia, le nuove concessioni sarebbero insufficienti e tardive, non in grado di fermare gli effetti negativi sull’economia e sulla società delle vecchie regole. Si affaccia così la prospettiva che la Repubblica popolare cinese possa diventare il primo Paese al mondo a invecchiare prima ancora di arricchirsi.