Opinioni

Mattarella e l'amicizia italiana per Israele. La chiarezza del dialogo

Angelo Picariello mercoledì 22 gennaio 2020

«Non ci può essere pace nel mondo se il Mediterraneo non è in pace», ricorda l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, che oggi incontrerà il presidente Sergio Mattarella. Che poi vedrà, a seguire, anche il Custode di Terra Santa padre Francesco Patton. E la visita del nostro capo dello Stato in Israele – per partecipare, giovedì 23 gennaio, alla cerimonia per il 75esimo Anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau – diventa l’occasione, nel dibattito in corso per la Giornata della memoria, per ribadire un ruolo-ponte forse insostituibile svolto dal nostro Paese nel difficile scenario del Vicino Oriente. Diventa l’occasione per chiedersi come poter essere – davvero – da italiani, amici di Israele e del popolo palestinese, e come poter essere – davvero – impegnati contro i rigurgiti preoccupanti di antisemistismo in crescita esponenziale, in Italia come in tutta Europa. Perché, come ha ricordato la senatrice a vita Liliana Segre, la lotta all’antisemitismo «non va mai disgiunta dalla più generale ripulsa del razzismo e del pregiudizio che cataloga le persone in base alle origini, alle caratteristiche fisiche, sessuali, culturali e religiose».

Non si può in altre parole coltivare la diffidenza e l’ostilità verso altri popoli o altre religioni e poi meravigliarsi del fatto che cresce – in questo ambito, in questo clima – l’odio verso i fratelli ebrei. E allora diventa poco credibile e poco efficace prendere le distanze solo da questo. Bene quindi la netta presa di posizione di Matteo Salvini a favore dello Stato di Israele e contro i ritorni di antisemitismo nell’estrema destra. Un passo avanti importante, sancito al Senato davanti ad autorevoli esponenti della comunità ebraica e all’ambasciatore dello Stato di Israele in Italia. Ma proprio non c’era bisogno, all’indomani, di dar luogo a un nuovo giustificazionismo, incolpando – come ha fatto il leader della Lega – la massiccia presenza immigrati di fede islamica sul nostro territorio per il ritorno di intolleranza antisemita.

Operare per la pace, laddove vi sono conflitti, è un lavoro delicato, paziente, complesso, che richiede l’arte della mediazione e della prudenza verbale, necessarie in tutti i processi di pace. Chi, per conto del nostro Paese, prende posizione sulla polveriera del Medio Oriente, non dovrebbe trascurare che per l’Italia Gerusalemme rappresenta, come ha di recente ribadito Mattarella, «una città universale, che appartiene alle tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo e islam». La medesima prospettiva che anima i pastori di Terra Santa, portata avanti dallo stesso monsignor Pizzaballa che ha sempre affermato che «Gerusalemme è di tutti», rimarcando come nel popolo dei fedeli delle diverse Chiese e religioni alberghi una voglia di pace, con una moltitudine di «buone pratiche», di cui la politica stenta a rendersi interprete.

La buona politica, allora, è quella che vede il nostro Paese alla guida della Missione Unifil in Libano, con oltre 10mila soldati di 45 nazioni tra cui mille italiani, impegnati per la pace come forza di interposizione. Una missione in cui è fondamentale la figura di chi la guida perché – in assenza di un reciproco riconoscimento fra Libano e Israele – tocca al generale Stefano Del Col, che ne è il comandante, creare le condizioni, al confine, per un dialogo "indiretto" fra le parti. Precario finché si vuole, ma in grado di garantire una cessazione delle ostilità altrimenti impensabile fra le forze israeliane e le milizie di Hezbollah, e che invece dura da quasi 14 anni. Il confine sottile fra la guerra e la pace può essere oltrepassato con un niente, in quelle terre martoriate. E il modo migliore di essere amici di Israele è continuare a portare avanti tenacemente, d’intesa con l’Unione Europea, la linea «due popoli in due Stati», che Mattarella ha sostenuto e ribadito nelle sue visite in Israele e Palestina. E che ribadirà anche giovedì 23 gennaio, a 75 anni dalla fine degli orrori di Auschwitz.