Opinioni

In Somalia dalla guerra alla guerriglia. La caduta di Chisimaio come quella di Kabul

Fabio Carminati sabato 29 settembre 2012
​La storia, si sa, a volte si ripete: in scenari diversi, in proporzioni differenti, ma con le stesse dinamiche. La caduta quasi completa di Chisimaio, sotto i colpi dell’esercito keniano appoggiato dai “consulenti” britannici e americani presenti da tempo in Somalia, somiglia infatti per certi versi alla caduta di Kabul: una città abbandonata in fretta e furia nel novembre 2001 dai taleban, mai sconfitti militarmente fino in fondo.Da giorni infatti, mentre le truppe che appoggiano il governo somalo si posizionavano mordendo il freno, decine di miliziani e leader qaedisti di al-Shabaab erano fuggiti dal centro portuale del Sud. Lasciando alle loro spalle solo un nutrito manipolo di jihadisti pronti, o forse rassegnati, al “martirio”. Con i civili, come al solito, intrappolati tra l’incudine e il martello. I generali keniani e i consulenti stranieri avevano, inoltre, ricevuto l’ordine tassativo di aspettare. Aspettare che a Mogadiscio si compisse l’evento dell’elezione del nuovo presidente Hasan Sheikh Mahmoud, dopo l’insediamento del nuovo Parlamento che ha segnato la fine del decennale governo transitorio. Poi la palla è tornata ai militari e l’ultima offensiva, all’ultima roccaforte degli shabaab, è iniziata. In proporzioni impari i soldati keniani, le truppe lealiste e l’intelligence britannico-statunitense, sono entrati nell’ultimo baluardo qaedista. Ma il difficile viene adesso, come ha dimostrato alla fine del 2001 la riorganizzazione del movimento afghano, l’ascesa del mullah Omar e le difficoltà americane e dell’Alleanza del Nord a gestire una situazione di terrore e conflitto militare che è giunta fino ai giorni nostri; compresi i tentativi del presidente Karzai di avviare il dialogo con i taleban. In effetti, in Somalia ci sono tutti i presupposti per un “remake”. Con un precedente specifico: la caduta, nel dicembre 2006, delle Corti islamiche che governavano a Mogadiscio: sconfitta, anche lì, avvenuta grazie all’intervento esterno etiope. Una “débâcle militare” che ha portato poi a una metamorfosi politica: al punto che il predecessore dell’attuale presidente, Sharif Sheikh Ahmed, militava proprio in quella formazione. E alla scissione dell’ala più militare delle Corti, creando i presupposti per l’espansione dei fondamentalisti di al-Shabaab. Fermo restando il fatto che il reale controllo del Paese lo esercitano sempre i clan, adesso la situazione si sta ripetendo: con una variabile però più rilevante. Inevitabilmente, infatti, gli shabaab torneranno ad agire sul loro terreno preferito, quello della guerriglia. Aumenteranno, verosimilmente, gli attentati. Ma i legami ormai assodati tra gli shabaab e i quaedisti dell’Aqmi (al-Qaeda per il Maghreb islamico) lasciano prevedere una nuova stagione di terrore. E non soltanto nel territorio somalo che, dopo la promulgazione della Costituzione, sta tentando un’evoluzione democratica, ancora in uno stato larvale. In Kenya (il «Paese invasore») gli shabaab hanno già colpito a ripetizione e lo faranno con sempre maggiore frequenza, preconizzano ora molti osservatori. Così come gli obiettivi occidentali resteranno un bersaglio privilegiato. Lasciando emergere, ancora una volta, il paradosso somalo. E cioè: che la pace o la guerra nell’Africa orientale passano sempre da Mogadiscio.