Opinioni

La buona parte che ci spetta. La Chiesa, l’Italia e l’Unione

Francesco Ognibene mercoledì 22 maggio 2019

Più si approssima l’appuntamento con il voto per il Parlamento di Strasburgo meno chiara sembra la materia sulla quale siamo chiamati a pronunciarci. Per cosa andremo ai seggi domenica? Nella interminabile volata pre-elettorale in fondo ci siamo persuasi che l’inesausta discussione politica su temi e toni che con lo scenario europeo hanno poco a che spartire avrebbe ceduto il passo, a un certo punto, al vero oggetto della scelta. Invece è vero il contrario, tanto da accreditare l’idea che il clima e il passo della politica italiana la rendano sempre meno capace di pensare il Paese in un orizzonte più vasto, preferendo il corpo a corpo quotidiano del cortile di casa. Va in scena un’evasività rispetto alla materia oggetto dell’appuntamento elettorale – il futuro di tutti nella casa plurale dell’Unione – sulla quale la coscienza del cittadino che riflette e non cede all’emotività delle molte e opposte tifoserie pensa ci sia qualcosa di essenziale che rischia di sfuggirci. Sì, ma cosa?

Se siamo a questo punto è probabile che lo si debba a cosa siamo diventati, a ciò che determina, oggi, nel sentire diffuso della gente la coscienza o meno di far parte di una comunità nazionale tenuta insieme da un tessuto connettivo di princìpi e riferimenti sinora considerati preziosi, se non indiscussi. In altre parole, il nostro sguardo aperto o restìo sull’Europa e l’allergia o l’arrendevolezza verso messaggi di qualunque sorgente che la ridimensionano al ruolo di tappezzeria per i precari equilibri interni dipendono in larga parte dall’idea che abbiamo di noi stessi.

È il senso di quanto ha detto ieri, tra l’altro, il cardinale Bassetti all’assemblea dei vescovi ragionando di «futuro dell’Unione Europea», quando ha affermato – «forse un po’ provocatoriamente» – che «il problema non è innanzitutto l’Europa bensì l’Italia, nella nostra fatica a vivere la nazione come comunità politica». La consapevolezza di sé, e in particolare di cosa ci tiene uniti e ci fa sentire popolo variegato ma al dunque coeso, è determinante per sapere se e cosa possiamo portare dentro un progetto più vasto e mai come ora reso nebuloso come quello continentale.

Prima di chiederci "a cosa serve l’Europa", dunque, è il caso di confrontarci su una domanda più radicale che il presidente della Cei formula senza giri di parole: «Oggi, noi italiani, cosa abbiamo ancora da offrire?». Siamo fatti della nostra storia, di radici e valori e capacità, fragilità note e punti fermi altrettanto consolidati, un impasto di memoria, di fatica e di speranza. È un volto inconfondibile che ci appartiene forse senza neppure che ne siamo del tutto consapevoli e che periodicamente si tenta di farci dimenticare o disprezzare, ma che resta il cuore vivo del nostro Paese.

Ed è un cuore oggettivamente buono, cucito a un corpo vitale col filo inconfondibile e tenace della solidarietà: guai a crederlo perduto, logoro, irrilevante, o a lasciarcelo scippare dai predicatori interessati dello scetticismo, dell’indifferenza, del rifiuto o della superficialità. Difficile non riconoscersi, da qualsiasi parte lo si guardi, nel volto degli italiani schizzato da Bassetti quando, come a rincuorare un Paese frastornato e ansimante, ci ricorda le «nostre virtù», quali l’«accoglienza », la «tradizione educativa straordinaria», lo «spirito di umanità che non ha eguali», e poi ancora la «densità storica, culturale e religiosa di cui siamo eredi». In casa abbiamo la materia prima per abitare a testa alta l’Europa e il mondo che verrà, perché – nonostante le narrative opposte e certe pratiche furbe e cattive – siamo «convinti, generosi, solidali, rispettosi delle norme».

È il meglio di noi, ciò che ci rende «fino in fondo italiani» con un senso dell’uomo e del bene che pare naturale ed è invece lungamente coltivato, un «umanesimo concreto» espressione e frutto di «un Cristianesimo che ha disegnato il Continente ». Ecco la garanzia che l’impronta non si cancella. Se restiamo ciò che siamo nel profondo, se avvertiamo tutta la responsabilità e la fierezza di essere consegnatari di un dono originale e unico da condividere con altri, saremo «il volto migliore dell’Europa», incapaci di immaginarci reclusi dentro confini spirituali e geografici fuori dal tempo, europei come siamo per vocazione sin dalle origini, un popolo che unisce, comprende, abbraccia, risolleva, forse (e finché) conosce i propri limiti.

Non possiamo contare su nulla di più solido e promettente. Illusioni per anime belle? Attenzione al veleno del cinismo: può soffocare la speranza, ma non cancellare la memoria di ciò che da italiani siamo e restiamo. Guardiamoci allo specchio, allora, e torniamo a riconoscere impressi nel nostro volto i tratti del bene umano autentico che è ancora il lievito della storia.