Opinioni

Ru486. È perdente la battaglia esistenziale

Pietro De Marco venerdì 4 settembre 2020

Caro direttore,

vorrei anch’io intervenire nella necessaria discussione tra cattolici sul tema della tutela della vita che si sta sviluppando sulle pagine di 'Avvenire', riferendomi, in particolare, a una lettera di Angelo Moretti, pubblicata il 27 agosto 2020 assieme a una eccellente riflessione del giurista Domenico Menorello. L’intervento di Moretti, presidente della 'Rete di economia sociale internazionale' e di 'Sale della terra', è argomentato; lo spirito che lo anima è di partecipe attenzione al problema morale (ancora più: antropologico) e sociale dell’aborto. Le mie obiezioni vogliono essere rispettose di questi pregi. Vi sono due livelli della lettera: la questione dell’interruzione volontaria di gravidanza e il quadro della legge 194, da un lato, e gli argomenti di contesto e di metodo (il dialogo politico, il quadro costituzionale), dall’altro.

Da una lunga attenzione per il lavoro di Carlo Casini e da una tardiva, ma viva e riconoscente, frequentazione del fondatore del Movimento per la Vita, ho imparato a non deprecare la legge 194. Gli argomenti di Moretti non sono qua e là dissimili dai suoi. Solo, quella quota di studioso sociale che è in me, unita alle esperienze della vita, mi vietano illusioni. Non si può essere celebrativi della 194: prevale nell’opinione pubblica una immoralità che tutto sacrifica alla difesa, anzi alla promozione, dei 'diritti della donna' proprio col facilitarne le pratiche abortive. Ciò che la 194 propone in alternativa è generalmente ignorato: in rete, chi cerchi 'consultorio' trova 'interruzione volontaria di gravidanza' come dato equivalente e prevalente.

La 'medicalizzazione della disciplina giuridica dell’aborto' è già un fatto. Moretti tiene sullo sfondo la recente liberalizzazione dell’aborto farmacologico (Ru486). Ed è bene, perché la dichiarazione del ministro Speranza – «un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194, che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese» –, peraltro contestata in radice da articoli e commenti di 'Avvenire', distrugge la sua argomentazione. Esiste davvero, com’egli e altri sostengono, uno storico «progressivo avvicinamento delle posizioni contrapposte [le cattoliche e le 'illuministiche' o 'laiche'] a favore della libertà e dello sviluppo degli uomini e delle donne nella lotta alla discriminazione e alla disuguaglianza sociale, che ha contribuito a disegnare la nostra Costituzione»? Questo sfondo di convinzioni diffuse è, a mio parere, un pervicace generatore di illusioni. Pare di leggervi piuttosto, al di là dell’idealizzazione del processo politico postbellico, un compendio del declino di coscienza cattolica che attraversa oggi la Chiesa. Tale declino (uso un termine lieve) ha molte genealogie; una di queste è quella tradizione politica cattolica che si affida in toto alla laicità, al pubblico dibattito e alle leggi. Anzitutto nego che il «confronto tra posizioni illuministiche e posizioni teologiche» sia «uno schema già vecchio da secoli, superato dal Concilio».

Questo confronto e anzi dura opposizione, di cui Moretti scrive (credo dando a 'illuministico' l’accezione ampia di razionalismo anticristiano, laicismo agnostico e simili; oggi l’utopismo della 'vita buona'), sono stati costanti nei secoli, e sono ancora in atto se l’intelletto cattolico sa cogliere la corsa distruttiva delle culture 'libertarie' verso l’ultimo uomo. Opporre ragioni teologiche, ovvero le ragioni dell’antropologia cristiana, l’unica resistente e illuminante nella great disruption, è semplicemente un dovere che la Chiesa ha verso l’uomo e ogni uomo. Si tratta oggi più che mai di opporre un vero sapere all’ignoranza di sé che induce uomini e donne a sbarazzarsi di ostacoli, senza domande, per una 'vita buona' che è solo autoprotezione, un insensato autoconservarsi per morire. E su ragioni teologiche si fonda anche il giudizio cattolico 'sulle scelte altrui', richiesto a ognuno di noi come testimonianza, oltre che per conservare occhi fermi di fronte alle cose. Mai la Chiesa ha affidato alla sola volontà del Sovrano, sia pure il sovrano cristiano, figuriamoci quello demo-cratico, l’integrità della creatura umana e delle istituzioni fondamentali. Si pensi alla difesa del matrimonio indissolubile e della famiglia. La odierna accettazione delle leggi di dissoluzione del diritto naturale è, da parte della Chiesa, solo passiva: esse sono vigenti, poiché nel fatto auctoritas non veritas facit legem.

E la volontà dello Stato laico è prevalente poiché esso ha il monopolio della coazione legittima, non perché esso produca valori, non su questo terreno che non gli appartiene. Nell’ordine della verità cristiana ogni disciplina difforme della materia antropologica resta illegittima. In più: se in Italia le leggi in materia non sono 'imposizione pubblica', esse definiscono ormai delle facoltà (di abortire, di moltiplicare distruzioni e ricostruzioni 'familiari' ad libitum, di mutare 'genere' ecc.) che domani saranno opzioni favorite, poi privilegiate, alla fine imposte per il 'bene comune'. Nessuna inopportuna 'profezia di sventura' in questa previsione; la corsa sul piano inclinato è osservabile, giorno dopo giorno. Non vi è Costituzione che possa intervenire; quello che si distrugge nel costume più profondo non si ricostruisce, tantomeno si rifonda, sulla carta.

La Carta, poi, viene aggiornata su questa distruzione. La visione cattolico-democratica della lotta politica e culturale mondiale, a mio giudizio, è del tutto irrealistica; oggi più che mai il mondo non è un luogo per persone fragili ( no land for old men: lo straordinario sguardo di McCarthy sul Male). E il dramma è che nella Chiesa cattolica possa passare, oggi ancora più insidiosamente, l’idea che la sua funzione d’insegnamento (magistero) e la sua presenza attiva possano (per alcuni debbano) coincidere con le democratizzazioni e le buone prassi dialogiche; esserne surrogate. Infine, troppa etica dei sentimenti (cosa seria, ma entro confini); quando l’Ivg viene 'accompagnata' si rispetta di più la dignità 'ontologicamente intrinseca' dell’embrione? Il suicidio 'assistito' da amici è meno oggettivamente suicidio-omicidio? A mio giudizio, la battaglia 'esistenziale' contro la pillola Ru486 in day hospital, perché la donna 'resta sola', è perdente.

E non senza qualcosa di surreale. È surreale che sfugga che la donna può desiderare di consumare tutto rapidamente e 'in solitudine', senza coinvolgere alcuno. Possibile che la conoscenza cattolica delle anime, che veniva ai teologi morali anche da una seria pratica di confessionale, si sia ridotta a pensare così ingenuamente uomini e donne sempre dolenti, bisognosi di 'compagnia', infantili? I percorsi del male rendono spesso forti e decisi, fermamente irresponsabili: per questo il male è male, non romanticheria. Non illudiamoci che il vincente cinismo iperabortista (un portato del mondo Radicale) si commuova per la «solitudine della donna».

Sociologo, già docente nell’Università di Firenze