Opinioni

La strage in Kenya . Una catena del ricordo per resistere all'orrore

Antonella Mariani mercoledì 8 aprile 2015
«Noi potremmo essere i prossimi»: Walter Mutai ha 22 anni, studia Statistica all’Università di Moi e, come migliaia di coetanei, ieri ha manifestato a Uhuru Park, nel centro di Nairobi, per ricordare le vittime dell’assalto al campus di Garissa di giovedì scorso. 147 studenti e alcune guardie uccisi in una mattina di inizio aprile: un patrimonio di affetti, gioie, progetti per il futuro, speranze per il Kenya annientato dai miliziani islamici venuti dalla Somalia e dai loro complici kenyani. E anche un patrimonio di fede: le ragazze e i ragazzi cristiani selezionati e massacrati uno a uno. Un mucchio di cadaveri gettati a terra, con i vestiti colorati inzuppati di sangue, radunati in uno stanzone. Si fa presto a dimenticare anche una strage, quando non si guardano in faccia le vittime, una a una.147 però non è solo un numero. È Mary Muchiri Shee, già Miss Università. È Alex Omorwa Mogaka, studente di ingegneria. È Ayub Njau Kimotho, 21 anni, al secondo anno di Amministrazione aziendale. È il soldato Solomon Oludo, «vissuto e morto per il suo Paese». È Lydia Melody Obondi. È Doreen "Specialrose" Gakii. È Tonie. È Ruth. È Isaac... L’elenco è lungo, e ancora incompleto: le autorità del Kenya fino a ieri pomeriggio avevano resi pubblici i nomi solo di un centinaio di vittime, dopo lo straziante riconoscimento dei parenti.Ma se i miliziani islamici pensavano di cancellare dalla faccia della terra quei ragazzi – colpevoli di nulla, se non della propria fede e del loro essere istruiti e, dunque, futuri cittadini impegnati e, probabilmente, futura classe dirigente – non ci sono riusciti. L’idea è partita da Ory Okolloh, attivista dei diritti umani keniana, avvocatessa, blogger, tra le 100 persone più influenti del pianeta nel 2014 secondo il Time. «Daremo loro un nome. Uno per uno. Questi sono i giovani africani di cui parliamo sempre», ha scritto all’indomani della strage sul profilo twitter del suo blog (https://twitter.com/kenyanpundit), lanciando l’hastag #147notjustanumber, 147 non è solo un numero. Da allora è un flusso ininterrotto di fotografie delle giovani vittime, ciascuna con un frammento di storia, postate da persone che li conoscevano e rilanciate da centinaia di altri utenti: «Un fratello insostituibile»; «un amico prezioso»; «una studentessa modello…». E in moltissimi commenti, le tre lettere universali del commiato: R.I.P., requiescat in pace, riposi in pace.Una catena del ricordo inedita, alimentata perlopiù da africani, con il cuore quindi in un continente in cui la rete è ancora molto lontana dall’essere dominio universale, ma evidentemente ha già una sua potenza virale, la capacità di legare centinaia di migliaia di persone intorno a un (buon) progetto comune. A differenza di quando il web – partendo però dall’Occidente, in particolare dagli Stati Uniti – si mobilitò per le studentesse rapite in Nigeria da Boko Haram il 14 aprile 2014 (bringbackourgirls), questa volta non si reclamano azioni internazionali oppure offensive decise contro i terroristi. Oggi si chiede semplicemente il ricordo dei poveri ragazzi massacrati. L’universo digitale dove nulla viene cancellato o perduto – nel bene e nel male – oggi ricostruisce giovani vite, propone all’attenzione del mondo storie personali che un fanatismo cieco e violento ha preteso di distruggere per sempre. Così anche noi, in Occidente, paradossalmente possiamo scoprire quei volti, quei nomi, quelle esistenze solo ora che non ci sono più. Gli shabaab volevano cancellare persone, invece – grazie all’operazione «147 non è solo un numero» – i profili umani delle loro vittime sono stati consegnati alla consapevolezza comune e, un po’, alla storia. Non dimentichiamole. Fare memoria anche di queste vite spezzate è passo essenziale per resistere e andare oltre l’orrore.