Opinioni

Ancora dati record (dal 1998) per l'export. Tempo di semplificare e sostenere. L'Italia che fa ed esporta attende il rispetto che merita

Paolo Preti martedì 18 settembre 2012
​Ormai lo sanno anche i sassi: il mercato interno è praticamente fermo, si vive di export. Detto in altri termini, vendere in Italia è sempre più difficile in qualunque settore si operi, esportare è più semplice. Ora lo certifica anche l’Istat che con riferimento allo scorso luglio rileva un saldo della bilancia commerciale positivo pari a 4,5 miliardi, addirittura pari a 9,3 miliardi se si elimina la componente energetica e con un 70% di beni strumentali. È un dato di particolare importanza perché, luglio su luglio, questo avanzo determinato dalla differenza tra ciò che esportiamo e quanto importiamo è il massimo dal 1998. In questa rilevazione, che evidenzia un comportamento molto positivo delle nostre imprese, c’è tuttavia anche una componente su cui devono innanzitutto riflettere tutti coloro che ambiscono nel nostro Paese, oggi e domani, a un ruolo di responsabilità pubblica. È quella dello stimolo della domanda interna. Se si importa di meno e si esporta di più significa che diminuiscono le importazioni di prodotti finiti a uso e consumo degli italiani, non certo dei semilavorati o delle materie prime che servono alle imprese nostrane per realizzare altri semilavorati o prodotti finiti da esportare. E allora va contemporaneamente sottolineato sia il comportamento virtuoso delle imprese che hanno saputo velocemente adattarsi al mutato contesto internazionale dotandosi, nonostante le dimensioni spesso piccole, degli strumenti necessari alla bisogna, sia il deficit di interventi pubblici, per numero e risultati prodotti, a sostegno dei consumi interni. Anche il governo sembra, per esempio, calcare più felicemente gli spazi internazionali, dove molta credibilità è stata recuperata, rispetto a quelli locali dove qualche passo indietro in ordine a occupazione e redditi correlati, ma anche a tasse e mancato contenimento della spesa pubblica improduttiva dallo scorso novembre sembra essere stato fatto. È però bene che questi dati, e soprattutto i comportamenti che mettono in luce, non passino velocemente nel dimenticatoio senza aver permesso qualche riflessione in positivo. Due in particolare. Se avessimo abbandonato o disinvestito dal manifatturiero, come qualche sirena ha predicato e tuttora predica in nome di un maggior tasso di modernità da iniettare nel nostro sistema economico, non avremmo potuto raggiungere dati così elevati. Con le conseguenze negative del caso amplificate a dismisura dalla congiuntura particolarmente negativa: non solo avremmo visto diminuire in valore e in quantità la nostra presenza sui mercati mondiali, ma non avremmo potuto compensare ciò con un incremento delle vendite interne. E dunque disoccupazione e fallimenti avrebbero raggiunto livelli di guardia. In secondo luogo, anche viste le quasi contemporanee notizie provenienti da Fiat che sembrano annunciare l’esportazione di stabilimenti più che di auto, va sottolineato che quella sugli scudi è la "vecchia Italia" delle piccole e medie imprese, di proprietà familiare e a vocazione imprenditoriale. Non sarà mai ripetuto a sufficienza: è da qui che occorre ripartire, è su questo modello originale di sviluppo che occorre investire spianando la strada alla sempre più difficile azione di queste imprese con semplificazioni, defiscalizzazione e azioni di sostegno, anche simbolico. Sono troppi i gravami su chi, si potrebbe dire ciononostante, continua a inanellare risultati positivi. Si attendono per fine mese misure, che ha dichiarato ieri sulle pagine di Avvenire il ministro Passera, saranno concretamente tese a «dare una forte spinta all’innovazione e alla semplificazione» di queste nostre aziende. Sono attese da decine di migliaia di imprenditori e dai loro collaboratori, gente il cui lavoro quotidiano è dietro le cifre positive, quasi eccezionali, da cui siamo partiti. È un’attesa impaziente. La misura va colmandosi rapidamente.