Opinioni

L’attacco turco in Siria. Istantanee da una guerra detta «Sorgente di pace»

Marina Corradi venerdì 11 ottobre 2019

Dieci ottobre 2019, frontiera turco-siriana, operazione 'Peace spring', 'Sorgente di pace' – così l’ha chiamata il presidente turco Erdogan. Nei primi video che sul web ne raccontano frammenti è ancora notte fonda, quando colonne di carri armati si mettono in marcia verso il confine siriano, verso l’enclave curda. Se ne vedono solo i fari nell’oscurità, e l’avanzare sui cingoli, lento ma determinato, e forse anche più sinistro in quel procedere senza alcuna fretta, come adempiendo a un facile dovere. L’alba schiarisce l’orizzonte, ma i video mostrano un cielo rosso fuoco, e altissime colonne di fumo nero.

Bombe e missili hanno cominciato a cadere. Qui e là nel buio divampano alte lingue di fiamma di incendi. Si vede un villaggio dei più prossimi al confine in cui gli abitanti curdi hanno cercato di bloccare la strada con barricate di masserizie e piccoli falò, e un autoblindo che ci passa sopra senza rallentare nemmeno, e avanza rabbioso verso il centro del paese. Si vede una piccola folla di curdi che brandisce coraggiosamente bandiere e bastoni di legno, e subito viene dispersa; e ora fuggono, c’è chi cade nella calca, chi si china su un amico ferito. Poi le strade si svuotano, i soldati turchi sfilano in una cittadina deserta.

Col passare delle ore si moltiplicano i video in cui l’esercito di Erdogan marcia gagliardo, a poche ore dalla partenza dei militari americani, richiamati da Trump. Nel sole pieno ora i cingoli fragorosi dei carri armati sollevano la sabbia, e pare che niente al mondo li possa fermare. Nel cielo blu le scie bianche dei bombardieri a bassa quota. Fuoco, e fumo denso e nero spezzano l’orizzonte quieto dei campi. Che cosa c’era laggiù, chi ci abitava? Ci vuole un po’ di tempo perché il web mostri cosa hanno fatto le bombe, da vicino. Sono le immagini della città di Qamishlo, colpita dai missili: larghe pozze di sangue sui marciapiede proseguono fino alla porta di una casa, come se un ferito grave fosse stato portato di corsa al riparo. Bambini feriti e sbalorditi sui letti di un reparto chirurgico, medici affannati. Non saranno magari oltre cento, quanti ne dichiara, forse a scopo di propaganda, l’esercito turco, i morti di oggi nel Nord della Siria. Ma già molto sangue è scorso, e anche fra i civili.

E, il terrore? Quegli incroci alle periferie dei paesi ingolfati di auto, moto, camion, carretti trainati da cavalli, tutti disperatamente a contendersi la strada per la fuga, tutti stracarichi di uomini, donne e bambini. E le colonne di chi scappa a piedi sulle strade polverose, con un figlio in braccio, con un sacco di frumento sulle spalle, e madri sole con le figlie bambine per mano, le mani alzate a supplicare un passaggio? Ma corrono via senza fermarsi quelli che hanno la fortuna di avere un mezzo. Scappano i curdi, ci sono abituati da sempre, scappano ancora una volta, di nuovo, ora che il Daesh pareva sconfitto, e anche grazie a loro. Tremano di nuovo, e di più, i cristiani. Ma gli americani se ne sono andati, l’Occidente sta a guardare, e pare più vero un detto di questo popolo sfortunato che afferma: «I nostri amici, sono solo le montagne». Osservi questa sfilata di sofferenza e terrore che passa sullo schermo, accessibile a ciascuno, se pure intervallata sui siti web da suadenti spot di profumi di Dior o di orologi di gran marca (paiono, le due serie di immagini, provenienti da due diverse galassie) e pensi a quante infinite volte nella storia, con armi diverse, a ogni latitudine, ore del tutto uguali a queste si sono ripetute.

Quei villaggi con la gente che brandiva bandiere perdenti e inutili bastoni, incalzata da un esercito: quante volte questa scena nei secoli è tornata, identica? E i carri armati turchi tronfi e sferraglianti, non somigliano a quelli tedeschi, certi della vittoria oltre la linea Maginot, o ai nostri, più piccoli, nella steppa verso il Don, lanciati, non appena fosse venuto l’inverno, verso un massacro? Gli sfollati con i bambini e i carretti stracarichi non sono uguali alle popolazioni dell’ultima guerra in fuga, nemmeno ottant’anni fa? Si chiama guerra. E’ una costante che maledettamente ci accompagna, che a intermittenza torna e riesplode, malattia endemica che ci sta nel sangue, silenziosa e apparentemente sconfitta: ma poi rialza la testa. Si chiama guerra, è la vittoria di un male antico in noi. 'Sorgente di pace', viene però battezzata questa volta, e questo è troppo. Spaventa, l’improntitudine di chiamare così una guerra. Come la sfrontatezza di chi pronunci al mondo non a mezza voce, ma spavaldamente, la più grande, la più flagrante delle menzogne.