Opinioni

Giovani, carcere, porte chiuse. L'irrisolta ingiustizia

Maurizio Patriciello martedì 16 ottobre 2012
Vite stravolte. Destini già segnati. Giovani senza sbocco. Per loro si sarebbe potuto fare tanto e invece sono stati lasciati a se stessi. Tenuti ai margini. Dimenticati. Abbandonati ad amicizie pericolose. Matteo, 26 anni, è stato acciuffato l’altro giorno dalla polizia e trasferito in carcere. In questa terra campana. Poche ore prima aveva rapinato un minorenne del telefonino e altri effetti personali. Gli è andata male. Qualcuno tira un respiro di sollievo. Un pericolo in meno in giro.Il carcere, Matteo, la prima volta lo conobbe che era appena maggiorenne. Era andato, insieme ad Andrea, a rapinare coppiette appartate nelle auto in sosta. Andrea aveva 15 anni appena. La rapina, in una fredda sera di febbraio, finì tragicamente. Incapparono, infatti, in un poliziotto che esplose un colpo di arma da fuoco. Andrea morì pochi minuti dopo. Il dolore dei genitori, delle sorelle, del quartiere fu immenso. Il giorno del funerale la chiesa era strapiena di adolescenti, giovani, mamme addolorati e arrabbiati. «Non si uccide un ragazzino di 15 anni», gridavano piangendo. Avevano ragione da vendere. Purtroppo, sia lui che Matteo erano alti di statura e nel buio della notte tra le loro mani era sbucata anche una pistola. Che fosse un giocattolo si seppe solamente dopo. In chiesa, tra la folla, c’era un giovane giornalista, Roberto Saviano. Il tristissimo episodio sarebbe poi finito nel suo libro Gomorra.Andrea morì e Matteo iniziò a espiare la sua pena. Conobbe il carcere e le sue regole. Fu dura. Volle vedermi a tutti i costi. Riuscii a raggiungerlo a Poggioreale. Mi corse incontro e mi tenne stretto fra le braccia per un tempo lunghissimo. Le guardie ci guardavano commosse. Piangeva a dirotto, Matteo. Io mi sforzavo di non farlo. La direzione fu così gentile da lasciarci da soli in una stanza. Parlammo a lungo. Il rapinatore che faceva tanta paura era solamente un ragazzone impaurito che mi stringeva le mani fino a farmi male. Dio mio, quanto abbiamo capito poco di questa benedetta gioventù. Fu trasferito a Cagliari, poi ai domiciliari. Andai a trovarlo a casa. Voleva ricevere la cresima e sposarsi in chiesa. Faceva mille propositi buoni. Non si stancava di raccontare. Troppo aveva sofferto in carcere per pensare di ritornarci.Finalmente libero, cercò un lavoro. Un qualsiasi lavoro. Per qualsiasi paga. Sopportando qualsiasi orario. Subendo qualsiasi umiliazione. Niente. Non riuscì a trovare niente. La famiglia gli si stringeva attorno. Non lo lasciava solo. Tremavano i genitori sapendo come si vivacchia in certi ambienti. Sapendo che, dopo aver lottato e pianto, un ragazzo può tornare a sbagliare. Domenica scorsa la sua foto era in prima pagina sui giornali locali. Matteo è finito di nuovo dietro le sbarre. La società civile ancora una volta si è liberata di un pericoloso delinquente? Può dunque stare più serena? No, assolutamente. Pur condannando senza esitazioni il suo comportamento riprovevole, occorre chiedersi che cosa si sia tentato per riportare questo giovane sulla retta via. Lui ha lottato, implorato, chiesto aiuto per non sbagliare più, ma non una sola porta si è aperta al suo bussare. Ha gridato al mondo la sua angoscia, la sua disperazione, la sua voglia di vivere con un lavoro onesto. Inutilmente. E una cosa è certa: da questa ulteriore detenzione non ci guadagnerà nessuno. Alla sofferenza antica si aggiunge altra sofferenza. Alla povertà altra povertà.Giovani in bilico. Equilibristi. Ragazzi che vivono sulla lama di un rasoio. Non so per quanto tempo rimarrà in carcere questo gigante con la barba. Ma una cosa so, e la dico con certezza: dopo aver scontato la sua pena, con il cuore più indurito, si ritroverà al punto di partenza. Finché la società non lo aiuterà a imboccare il binario giusto della vita, Matteo è destinato solamente a soffrire e far soffrire il prossimo. Ed è questa, in un’Italia dove tutto sembra diventare motivo di guerra tra poteri e alibi per niente mai cambiare davvero, l’ingiustizia. L’irrisolta, ma risolvibile, ingiustizia che va finalmente messa sotto processo.