Opinioni

I giovani, la crisi, la nostra speranza. L’«irrealismo» che ci rigenera

Marina Corradi giovedì 29 settembre 2011
«Eppure noi abbiamo speranza», dicono i ragazzi reduci dalla Gmg di Madrid, nella terza pagina di questo giornale. E, nella cappa di crisi e scoramento che grava oggi sull’Italia e l’Occidente, potrebbe sembrare un accento irrealistico; scusabile al massimo se chi parla così ha vent’anni – perché a quell’età, si sa, è nella natura degli uomini sperare.I ragazzi tornati da Madrid non parlano però di una speranza indeterminata, dovuta a suggestioni o emozioni vaghe; parlano della speranza cristiana. Quella che, dice Benedetto XVI nella Spe Salvi, «attira dentro il presente il futuro»; perché la certezza di ciò che è promesso già cambia, già trasforma il presente. Hanno almeno intravisto questa speranza, a Cuatro Vientos; ne parlano magari timidamente, come di qualcosa che con evidenza contraddice la logica dominante, e quindi di tacitamente scandaloso. Non vogliono essere «né indignati né rassegnati», secondo l’espressione adottata dal cardinale Bagnasco; non solo sterilmente intenti a protestare e accusare, ma nemmeno cinici, tesi soltanto a procurarsi un proprio privato angolo di benessere. Insomma i ragazzi passati per Madrid dicono che è ragionevole, sperare. Ma in cosa, esattamente? È probabile che questa domanda si ponga nelle case, nelle aule, fra amici. Che padri stanchi e disillusi, o professori o compagni reagiscano a questo alito di speranza: alzando, dubitosi, le spalle, senza capire; oppure mossi dalla curiosità, e dalla memoria di un proprio censurato desiderio, chiedendo: speranza? Ma, speranza di che? E magari così ribatte anche qualcuno che in chiesa va da sempre: speranza di che?, ti domanda un collega che nella abitudine della fede è cresciuto. Se allora rispondi con quella parola «più grande e più cara che abbiamo», come ha scritto Bagnasco; se rispondi indicando Cristo, scrollano la testa come a dire "già, al solito", o obiettano: dimmi come c’entra, Cristo, con la nostra vita quotidiana. E vedi allora come avesse ragione Hans Urs Von Balthasar quando diceva che la fede non deve essere presupposta, ma sempre proposta; ancora e di nuovo, anche in luoghi che diresti naturaliter cristiani; e dove invece l’abitudine si deposita sulle coscienze – come polvere sui crocefissi, nelle aule delle scuole.Così che la questione della speranza, sollevata dai figli, ci interroga. È, Cristo, una pia memoria, un’astrazione pur nobile ma non incidente sul reale, oppure è un vivo, da cui come dentro a un’amicizia o un amore attingere speranza, energia, larghezza di cuore? È solo l’icona di una onorevole morale, o è presenza che opera, taglia, colma, compiendo la pretesa assoluta: «Io sono tutto in tutti»?Crederci, o no. Osare – nel tempo in cui si crede solo a ciò che è scientificamente dimostrato, positivamente misurato – credere a un Dio che non si vede, e che però dissemina il mondo di suoi segni; e però opera, e lo si vede nella faccia di chi crede davvero. «Radicati e fondati in Cristo», esortò Paolo, e si sono sentiti ripetere i ragazzi a Madrid. In questo nome, e non in confuse illusioni, capaci di speranza. Capaci di riconoscere negli ultimi, e perfino nel nemico, quello stesso volto; e per via di quel volto (madre Teresa diceva che vedeva Cristo in ogni povero che raccattava per strada), in grado di fondare la carità e la solidarietà, come ha fatto il cristianesimo in Occidente. Capaci di incontrare anche chi non crede e di aggregare in quel bene – e in un idea di uomo e di donna basata sui valori che non si negoziano in alcun "mercato" del mondo. Capaci di fare tutto questo, nella fascinazione esercitata dall’evidenza di uno sguardo più fecondo e più umano.La speranza respirata a Cuatro Vientos percorre dunque, magari impercettibilmente, le nostre case. Parla a quattr’occhi, e a bassa voce. Domanda: ci credete voi, davvero? Non diventerà mai un titolo sui giornali. E tuttavia, nel fondo della crisi, bussa. Provoca: che Cristo c’entri ancora, con il tempo e la storia? Chissà che almeno alcuni, di quei ragazzi, forti di quella speranza, non generino: desiderio, rinascite, nelle nostre città scorate e stanche.