Opinioni

I «bric» e l’economia mondiale. Interessati calcoli

Giorgio Ferrari venerdì 4 novembre 2011
Quale che sia il suo esito finale, questo G20 che ha preso avvio ieri a Cannes sotto una pioggia malinconica reca con sé una novità: apparentemente, non saranno più gli Stati Uniti a salvare il mondo, non sarà più Washington a risultare determinante per le esauste finanze dell’Europa in crisi, né potrà più la Casa Bianca dettare in esclusiva le regole e i lineamenti delle Bretton Woods che verranno.I protagonisti di domani, coloro che per intenderci metteranno mano al portafogli per venire in soccorso delle crisi di fiducia del Vecchio continente, saranno semmai i Bric, acronimo dietro cui si celano Brasile, Russia, India e Cina, potenze emergenti dalla crescita impetuosa, solo marginalmente sfiorate dalla grande crisi innescata nel 2007 dal collasso della finanza derivata, che a quattro anni di distanza continua a mordere e a macinare miliardi senza che appaia all’orizzonte una soluzione condivisa, una “governance” dell’economia mondiale, un nuovo profilo che metta le singole nazioni al riparo dalle tempeste dei mercati.Ma questi “cavalieri bianchi” di fronte allo smarrimento e all’incertezza che si respira attorno alla raggelata ospitalità francese, ai dubbi tedeschi, alla bizzarria greca, all’imbarazzo delle istituzioni europee (unica favilla, la decisione a sorpresa del neopresidente della Bce Mario Draghi di abbassare di un quarto di punto i tassi, salutata con favore da tutti i mercati), in verità riluttano. Aprire i cordoni della propria borsa, comprare titoli del debito pubblico greci, italiani, spagnoli belgi, irlandesi, portoghesi, immettere su questa specie di grande lebbrosario che sta diventando il debito di molte nazioni europee risorse fresche, tutto sommato fa paura. E dire che le risorse ci sarebbero, eccome: la Cina ha in portafoglio 3.200 miliardi di dollari di riserve valutarie, il Brasile e la Russia sono pronti a spendere, i proclami non mancano. Di fatto però i giganti emergenti – ma si possono ancora chiamare così di fronte a un’America in visibile affanno e dai conti macroeconomici tutt’altro che lusinghieri? – per ora segnano il passo: continueranno a comprare bond europei dall’incerto futuro, assicurano, ma senza intervenire massicciamente per salvare Eurolandia. «L’eurozona – dice Hu Jintao – non si aspetti che la Cina sia il salvatore che la porterà fuori dalla crisi. Del resto l’Europa ha i mezzi per farcela da sé». Tagliente quanto impietoso il commento del presidente della Banca Mondiale Zoellick: «Ma davvero gli europei che hanno redditi medi pro capite vicini ai 40mila dollari speravano di essere salvati da un Paese dove il reddito è di 4mila?» E qui sta la chiave e insieme la più verosimile previsione di ciò che avverrà nei prossimi mesi: i Bric forse aiuteranno davvero i Piigs (impietoso quanto ingiusto acronimo per Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) a uscire dal guado, ma il loro non sarà per nulla un Piano Marshall, né vi saranno spinte ideali o motivazioni nobili. Sarà solo una questione di pura convenienza, il risultato di un calcolo sul pallottoliere. E sicuramente i Bric esigeranno ciascuno la propria contropartita: nessuna rivalutazione del renminbi (Pechino), ingresso nel Wto (Mosca), aumento dei tassi da parte della Fed (Brasilia), maggior peso nel Fondo Monetario Internazionale (New Delhi). Tuttavia – nonostante questo storico declassamento – è ancora l’America ad avere in mano il timone dell’iniziativa. Obama, forte di un’intesa con la Francia sull’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie, punta tutto sulla crescita, sulla creazione di posti di lavoro, sulla necessità di incrementare i consumi, soprattutto laddove (e qui è il caso dei Brics) la crisi non ha fatto sentire i suoi artigli. Ma Cina e Russia, e defilate India e Brasile, che in teoria potrebbero invocare la leadership, di fatto restano a guardare. Ci salveranno, forse, ma sospettiamo che sarà ancora l’Occidente a disegnare la rotta dell’economia mondiale.