Opinioni

Analisi. Daniel Bar-Tal: «Insediamenti e i due Stati La strada in salita di Israele»

Fulvio Scaglione sabato 18 febbraio 2017

Una sassaiola palestinese contro gli insediamenti israeliani di Ras al-Amud

«Chiediamo agli ebrei di tutto il mondo di unirsi agli israeliani per un’azione coordinata che ponga fine all’occupazione e costruisca un nuovo futuro, per il bene di Israele». Bastano poche parole, in fondo, per tracciare un programma rivoluzionario. E questo lo è, basta guardarsi intorno. Il nuovo presidente Usa, Donald Trump, incontrando il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha certificato a modo suo l’abbandono della 'soluzione a due Stati' (cioè la creazione di uno Stato per i palestinesi), accusando anche l’Onu di essere troppo critico nei confronti dello Stato ebraico. Il tutto pochi giorni dopo che la Knesset, il Parlamento di Israele, ha approvato (con 60 sì e 52 no) una legge dal valore retroattivo che 'regolarizza' i terreni che appartenevano a palestinesi ma su cui sono stati costruiti decine di insediamenti, fino a prima delle legge appunto illegali. Un grande favore ai cosiddetti 'coloni', che in futuro potranno occupare terre altrui confidando in altre 'sanatorie'. Insomma, sembra il timbro finale a quella occupazione che il 5 giugno, anniversario del primo giorno della guerra dei Sei Giorni del 1967, compirà il mezzo secolo.

Quelle parole, però, non basta trovarle. Bisogna poi gridarle anche a chi non vuol sentire. Questo è proprio ciò che fa Daniel Bar-Tal, psicologo, docente presso l’Università di Tel Aviv fino alla pensione. «Ho sempre privilegiato l’attività accademica – spiega con un sorriso il professore –, ma da quando sono andato in pensione ho recuperato tutto lo spirito dell’attivista». Il che è vero fino a un certo punto perché lo studioso e il militante hanno molti punti in comune. Psicologo sociale, Bar-Tal ha dedicato al tema dell’occupazione un libro fondamentale ( The Impacts of Lasting Occupation, Oxford University Press, con Izhak Schnell) e decine di articoli su giornali e riviste specializzate. «Il nostro punto di partenza – spiega Daniel Bar-Tal – è che un’occupazione prolungata diventa un sistema militare, politico, sociale, economico, culturale e legale che influenza sia l’occupato sia l’occupante. Il più debole, cioè colui che subisce l’occupazione, patisce in modo evidente. Ma anche il più forte, l’occupante, non deve illudersi: gli effetti di questo rapporto perverso si fanno sentire anche su di lui».

Sappiamo ciò che l’occupazione significa per i palestinesi. Il controllo militare israeliano ma anche ciò che nel luglio 2016 Ban Ki-moon, da segretario generale dell’Onu, così descrisse nel rapporto intitolato 'Economic Costs of the Israeli Occupation for the Palestinian People': «Forti restrizioni sui movimenti delle persone e delle merci, sistematica erosione e distruzione della base produttiva, perdita di terre, acque e altre risorse naturali, frammentazione del mercato interno e separazione dai mercati confinanti e internazionali, espansione degli insediamenti israeliani». E per gli israeliani? «Negli ultimi 15 anni – dice Daniel Bar Tal – la narrazione del problema è tornata a essere quella degli anni Settanta. Gli israeliani sono stati indotti a credere che la terra tra il Giordano e il mare appartenga loro in modo esclusivo, anzi: gli insediamenti sono diventati il cuore dell’identità nazionale.

E la memoria dell’Olocausto, con le paure atroci che porta con sé, è stata sfruttata per affermare un diritto a difendersi che non contempla l’esistenza di altre vittime. Il ciclo in apparenza senza fine di rivolte e repressioni, ovviamente, non fa che rafforzare tale approccio: delegittima l’avversario palestinese e incentiva l’auto-vittimizzazione degli israeliani, che così possono mantenere un’immagine sempre positiva e orgogliosa di sé, a dispetto di tutto». È una spirale che sembra senza fine che annulla qualunque approccio razionale al problema della convivenza tra i due popoli. In uno studio del 2015, la Rand Corporation, centro studi fondato nel 1948 negli ambienti militari Usa e poi diventato indipendente, quindi poco incline agli estremismi, ha stimato che la 'soluzione a due Stati' porterebbe enormi benefici sia a Israele sia ai palestinesi. Israele potrebbe guadagnare 123 miliardi di dollari nei primi dieci anni e i palestinesi 50, con un incremento del 5% nel reddito medio degli israeliani e del 36% in quello dei palestinesi. Ma nessun messaggio sembra penetrare certi rancori.

«Se pensiamo che ormai due generazioni sono nate sotto l’occupazione – continua il professore – e che il Governo usa il sistema scolastico e i media per perpetuare quella narrazione, si capisce perché oltre il 70% degli israeliani non accetta e nemmeno capisce il termine 'occupazione'. E soprattutto non riesce nemmeno a concepire l’idea che possa esistere una soluzione alternativa, che altre strade siano più convenienti. Tutto questo, però, sta inesorabilmente degradando il sistema democratico, che sarà messo ancor più alla prova dal tentativo di esercitare un’autorità di tipo militare su più di 2 milioni di palestinesi che non sono cittadini di Israele e che, insieme con i palestinesi che invece sono cittadini di Israele, formano quasi metà della popolazione che vive tra il Giordano e il mare. Per non parlare dei costi: Israele spende per gli insediamenti tra i 7 e gli 8 miliardi di euro l’anno, un peso che diventa sempre meno sostenibile. Come vede, è della salvezza di Israele che ci preoccupiamo. E l’unica salvezza è nella soluzione a due Stati».

Sulla base di queste convinzioni, quindi, Daniel Bar-Tal ha fondato SISO, ovvero Save Israel Stop Occupation (Salviamo Israele, Fermiamo l’occupazione), un movimento che, come dice la sigla stessa, si è dato una specie di missione impossibile: rovesciare una situazione che vige da mezzo secolo e che ormai ha portato più di 600mila persone a vivere negli insediamenti, quasi il 10% della popolazione totale di Israele. E che non solo, come la recente legge dimostra, è politica dello Stato ma è anche sostenuta da una larghissima parte dell’opinione pubblica. «Forse è impossibile, ma ci sono solo due strade. Stare a casa e deprimersi. Oppure provare a fare qualcosa, perché anche questa, come tutte le occupazioni, è destinata a finire». Nei due anni scarsi di vita, SISO ha già prodotto i suoi effetti. Per esempio, l’appello che abbiamo citato all’inizio e che è stato firmato da oltre 500 personalità di Israele e della diaspora, tra le quali gli scrittori David Grossman e Amos Oz, Daniel Kahneman (premio Nobel per l’Economia nel 2002), Avishai Margalit (accademico, docente di Filosofia a Princeton), Zeev Sternhell (storico), diplomatici come Elie Barnavi (ex ambasciatore di Israele in Francia), Colette Avital (già ambasciatrice in Portogallo e numero tre del ministero degli Esteri), Ilan Baruch (ex ambasciatore in Sudafrica) e molti altri.

Per il giorno del cinquantenario il movimento ha ottenuto l’adesione di una trentina di organizzazioni pacifiste israeliane a una serie di iniziative che si terranno in decine di città di tutto il mondo. L’apice sarà il 10 giugno, data che mezzo secolo fa segnò la fine della Guerra dei Sei Giorni, con una catena umana che si allungherà lungo parte della Linea Verde, la linea di demarcazione segnata con l’armistizio della prima guerra del 1948-1949, la cosa più vicina a un confine (che peraltro non è) che sia riconosciuta dall’Onu. «Da molti anni – dice Daniel Bar-Tal – la linea Verde non è nemmeno menzionata nei libri di testo delle scuole di Israele. Come stupirsi, quindi, se negli israeliani manca la coscienza dell’occupazione?». Il professore è anche 'ambasciatore' di SISO presso le comunità ebraiche della diaspora e ammette che il compito non è sempre facile. Gli ebrei liberal americani, per esempio, faticano a mobilitarsi. «Per molti – commenta – criticare Israele è sempre un problema. Li capisco, sentono lo Stato ebraico in costante pericolo e temono di danneggiarlo. Ma il vero danno si fa lasciandolo proseguire su questa china».