Opinioni

Il direttore risponde. Ingratitudine di un figlio, il dolore più grande

sabato 13 giugno 2009
Caro Direttore, mercoledì alla mensa della Caritas era rimasto un po’ di sugo pronto per condire la pasta e ho deciso di portarlo ad una famiglia di vecchietti che so in particolare difficoltà. La moglie riesce ancora ad andare a fare la spesa e, grazie alla pensione di lui che era impiegato in uno dei carrozzoni regionali poi andati in malora, riescono a vivere dignitosamente pagando anche un affitto di casa abbastanza alto. In quella famiglia il vero problema è lui, perché non riesce più ad alzarsi e spera sempre nell’arrivo di qualche figlio (ne ha tre, tutti maschi) per alzarsi e essere lavato. La moglie mi ha detto di non avvicinarmi troppo al marito perché faceva cattivo odore in quanto da qualche giorno il figlio a cui tocca in questo mese accudire il padre non si fa vedere. Ovviamente ho chiesto spiegazione di questo ritardo del figlio che, tra l’altro – ma non ne sono sicuro –, dovrebbe avere un lavoro part time, e quindi ha abbastanza tempo libero, e la risposta mi ha raggelato. La signora, con molta dignità, ma decisa a vuotare il sacco, mi disse che ha provato più volte a chiamarlo al telefono e la risposta è stata sempre la stessa: «Se non mi paghi, non vengo» ! E dal momento che i soldi della pensione per questo mese sono già finiti, il povero marito resta nel letto sporco in attesa che arrivi il vaglia postale. Crudeltà mentale e di cuore! Il padre giace su un letto sporco, solo perché il figlio vuole essere pagato per alzarlo e pulirlo! Non racconto come è andato finire il tutto. Volevo soltanto far riflettere sul tipo di umanità che si muove ogni giorno attorno a noi. Non ci sarebbe niente di che meravigliarsi se un giorno leggessimo che il giovane ha commesso qualche rapina, uccidendo un povero tabaccaio o benzinaio. Cuori così sono capaci di tutto. Di tutto il male possibile.

Vincenzo Noto direttore della Caritas di Monreale (Pa)

È un racconto davvero agghiacciante il suo, caro don Vincenzo, eppure non stupisce. Credo che ciascuno, nel giro delle proprie conoscenze o per la frequentazione di qualche reparto ospedaliero di lungodegenza o una di casa di riposo, abbia ascoltato confessioni sconfortate di abbandono, ingratitudine, attenzioni finalizzate solo all’interesse più bieco e vile proprio perché perseguito tradendo gli affetti più cari. Quella povera madre subisce la prova più atroce che possa capitare a un genitore, sperimenta « qual dolore tagliente, più del morso d’un serpente sia un ingrato figlio » ( W. Shakespeare, « Re Lear » , 1,4). Cosa può indurre tanta grettezza, insensibilità, cattiveria? Certo, il riferimento al grande scrittore inglese del ’ 500 dimostra come non siamo di fronte a un fenomeno tutto e solo moderno, ma le dimensioni oggi toccate paiono di dimensioni inusitate, forse anche per il riverbero che ottengono dai media i frequenti esiti drammatici. E colpisce il fatto che l’episodio da lei raccontato accada in una terra nella quale i legami di sangue sono sempre stati considerati tenacissimi, caratterizzati da una « sacralità » assoluta, indiscutibile... Sono convinto al pari suo, che chi arriva a tali bassezze sia già pronto per qualsiasi altra infamia e anche per il crimine. Non vedo difesa verso questi comportamenti: si può solo cercare di prevenire, facendo del nostro meglio sul terreno educativo e della testimonianza perché risalti che la « vita buona » non è cosa solo per « anime belle » non capaci di reggere la durezza del mondo, ma l’unica via in grado di procurare serenità e appagamento anche nelle avversità.