Opinioni

Incontrarsi a metà strada. Usa-Cina: forse si ferma il volo dei falchi

Agostino Giovagnoli sabato 13 marzo 2021

Tra Cina e Stati Uniti ci sarà presto il primo incontro ad alto livello dell’era Biden. Il 18 marzo il segretario di Stato, Antony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, vedranno Yang Jiechi, direttore dell’ufficio Affari Esteri del Partito comunista, e Wang Yi, ministro degli Esteri. Sarà ad Anchorage, Alaska, a metà strada fra le due capitali, e si svolgerà quasi in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della partita di ping-pong più famosa della storia, quella tra Usa e Cina che, nell’aprile 1971, aprì la strada alle visite di Kissinger e di Nixon. Fu l’inizio della politica che Washington ha poi seguito verso Pechino per molti anni, decisiva per far diventare la Cina ciò che è oggi.

Era presumibile che ci sarebbe stato, dopo l’elezione di Biden, un incontro ad alto livello tra i due Paesi, ma l’annuncio è arrivato prima del previsto. È una novità dopo anni di aspri contrasti. L’iniziativa è partita dagli Usa e tra i motivi dell’accelerazione ci sono il viaggio di Blinken e del capo del Pentagono, Lloyd Austin, in Giappone e Sud Corea (Austin andrà anche in India) e il vertice del Quad ( Quadrilateral Security Dialogue) in cui Biden incontrerà (on line) i primi ministri di India, Giappone e Australia, con cui gli Stati Uniti sperano di contenere l’influenza della Cina.

Ma non si vuole innestare uno scontro frontale. Gli americani sono molto prudenti e negano che l’incontro di Anchorage abbia carattere “strategico”, mentre i cinesi, che considerano l’amministrazione Biden migliore della precedente e che ritengono positiva la volontà di avviare un dialogo, vorrebbe subito risultati concreti.

Sul tappeto ci sono diverse questioni “non negoziabili”, come Hong Kong, Taiwan e gli uighuri dello Xinjiang, che per Pechino non rientrano nella politica estera, ma tra i domestic affairs. Proprio in questi giorni è stata approvata dal Parlamento cinese un’importante e controversa riforma elettorale per Hong Kong, prontamente condannata dagli Usa. Gli americani non possono rinunciare a sollevare questi problemi, sui quali però è probabile che ciascuno resti sulle proprie posizioni (ma è auspicabile che venga almeno allontanata la guerra per Taiwan).

Ci sono però anche molti problemi di interesse comune di cui parlare. L’ultimo esempio è costituito dalle “terre rare” necessarie (e per questo “predate” in modi anche terribili) per fabbricare i microchip, della cui produzione mondiale la Cina detiene l’80%: la questione è tanto urgente che i due Paesi hanno già costituito un gruppo di lavoro congiunto. C’è da sperare, inoltre, che ad Anchorage siano affrontati anche problemi più ampi e Joe Biden ha più volte dipotizzato una cooperazione riguardo al cambiamento climatico e alla proliferazione nucleare. È possibile che si parli anche di Myanmar, rispetto a cui Pechino ha ribadito il principio di non interferenza auspicando però un dialogo tra i militari e i loro oppositori.

L’incontro di Anchorage precede la definizione di una chiara politica americana verso la Cina. La politica di Trump è fallita: puntando tutto sulla guerra dei dazi, gli Usa si sono inflitti più danni di quelli procurati alla controparte.

Ma se è facile criticare questa politica, non è facile liberarsi della sua premessa: la convinzione che la diplomazia del ping pong sia un flop perché aiutare la Cina a diventare capitalista non l’ha trasformata in una democrazia. In realtà, il progetto di “esportare la democrazia” non si è realizzato anche in altre situazioni e, aiutando per tanti anni la Cina a crescere economicamente, gli Stati Uniti hanno comunque creato forti legami people-topeople, con conseguenze che si sono propagate anche all’interno della società cinese. Oggi Biden punta a saldare la difesa della democrazia all’interno degli Stati Uniti e a stringere legami più stretti con tutti i Paesi democratici.

Non avrebbe senso, in questo quadro, spingere Pechino nella direzione opposta. Non si devono trascurare, infatti, le spinte che vengono dalla Cina profonda: a seguito dell’inasprimento dei rapporti con gli Usa si è scatenata qui un’ondata nazionalista e populista non facilmente controllabile da parte degli stessi dirigenti di Pechino, come ha sottolineato pochi giorni fa un alto esponente del Partito comunista (mentre è cresciuto un forte sentimento anticinese nella società americana). Oggi il nazionalismo domina in tante 'periferie' che negli ultimi decenni si sono rivelate sempre più determinanti, come si è visto nel referendum pro-Brexit o nelle elezioni americane. Aprire un dialogo – come accadrà ad Anchorage – significa contrastare queste spinte e potrebbe favorire una maggior sinergia tra Stati Uniti ed Europa, restia a seguire i falchi d’America (e di Cina) in una 'nuova guerra fredda'.