Opinioni

La Cuba che attende la parola di Benedetto XVI. In arduo cammino

Giorgio Ferrari sabato 24 marzo 2012
«L’ideologia marxista come e­ra concepita non corri­sponde più alla realtà e così non può costituire una società: devono trovar­si nuovi modelli con pazienza e in mo­do costruttivo». Le parole di Benedet­to XVI in partenza per il viaggio che lo condurrà in Messico e a Cuba suona­no come un dolente monito nei con­fronti del regime dei fratelli Castro. A quattordici anni dallo storico viag­gio di Karol Wojtyla nell’isola caraibi­ca ben poco – a dispetto delle appa­renze e della tambureggiante propa­ganda – è cambiato. Non a caso quel grido di Giovanni Paolo II – «Cuba si apra al mondo, il mondo si apra a Cu­ba » – lascia intravvedere una strada ancora molto lunga, lastricata di in­ciampi, trappole, ingiustizie e pur tut­tavia, come dice Benedetto XVI, «la Chiesa è sempre dalla parte della li­bertà: questo processo richiede pa­zienza e decisione e vogliamo aiutar­lo con spirito di dialogo per evitare traumi». Quando nel 2007 Fidel Castro cedet­te i pieni poteri al fratello Raul, il mon­do si convinse che Cuba stesse per im­boccare una prudente ma irreversibi­le via verso la libertà e la democrazia (anche economiche) e che i vecchi ar­nesi di cinquant’anni di reciproca o­stilità – il bloqueo , ossia l’embargo a­mericano, piuttosto che il divieto di espatrio da parte dei cubani – venis­sero rapidamente messi in soffitta. Una pia illusione. La gerontocrazia dell’Avana ha avuto la meglio perfino sulle prime file dei possibili successo­ri: i quarantenni, i giovani generali, i leader della gioventù comunista sono stati esonerati dagli incarichi a van­taggio di un regime paternalistico e autoritario insieme, una sorta di im­menso Kinderheim che relega la mag­gior parte degli 11 milioni di cubani in una sorta di avvilito torpore. Non si spiega altrimenti come il famigerato cuentapropismo (neologismo cubano ad indicare il permesso di vendere be­ni propri accordato solo poco tempo fa dal regime) possa aver fatto grida­re al miracolo: come se scambiare un mango con mezzo dollaro o vendere un pettine di balsa ai turisti sia un se­gno di ineguagliabile emancipazione economica e sociale. Ma tant’è, Fidel e Raul Castro, come Prospero nella Tempesta, cingono tut­tora Cuba del loro sortilegio remoto, indifferenti – o piuttosto atterriti, ci verrebbe da dire – di fronte al declino che il vecchio modello ideologico ha irrevocabilmente e tangibilmente im­boccato. Perché mentre le carceri di Fidel traboccano oggi come ieri di pri­gionieri politici, di dissidenti che han­no osato manifestare il proprio pen­siero, di detenuti che si lasciano per­sino morire di fame, la vita quotidia­na a Cuba è significativamente peg­giorata rispetto all’orgoglioso para­digma autarchico che dipingeva l’iso­la come il campione assoluto del si­stema sanitario latinoamericano, del­lo sport e dell’istruzione. «Né capitalismo né socialismo», o­stenta la propaganda che allude a u­na misteriosa terza via, ma oggi lo Sta­to non ha più i mezzi per mantenere (a 18 dollari al mese) il 90 per cento della popolazione, nel 2015 si preve­de la perdita di un milione di posti di lavoro nel settore pubblico e in com­penso i cubani sono chiamati per la prima volta a pagare le tasse. In altre parole, si vive peggio di un tempo, gli ospedali non sono più un’eccellenza, la corruzione spicciola comincia a far­si strada insieme al moltiplicarsi dei reati comuni (un tempo sconosciuti) e qualche centinaio di computer e di telefoni cellulari messi in vendita so­no solo un macabro simulacro di quella libertà di espressione che a Cu­ba costa carissima, a volte – come si è detto – anche la vita. Due cifre per meglio comprendere: se­condo la Commissione cubana per i diritti umani e la riconciliazione na­zionale, da gennaio a settembre del 2011 si sono verificati 2.784 casi di vio­lazione dei diritti umani, per lo più brevi periodi di carcere per i dissidenti, ossia 710 casi in più rispetto all’inte­ra durata del 2010, mentre oltre 65 giornalisti sono stati posti in stato di fermo o agli arresti. Siamo ancora molto lontani dalla "so­cietà più giusta" cui anela il Papa. Ma non c’è altra strada possibile se non quella di una faticosa transizione. In attesa che la grande saga dei Castro si concluda.