Opinioni

Dopo l'attentato contro i nostri soldati. In Libano meglio restarci Anche per la primavera araba

Vittorio Emanuele Parsi domenica 29 maggio 2011
Era già successo quando il ministro Calderoli aveva chiesto di ritirare le truppe italiane da Unifil affinché fossero rischierate «a difesa delle coste italiane per respingere gli immigrati clandestini». Si è ripetuto ieri, quando ancora una volta lo stesso ministro ha tuonato 'tutti a casa' e non solo dal Libano, ma da qualunque teatro. Invece che spiegargli che la politica estera è argomento semplice ma serio, i suoi colleghi hanno cercato di tranquillizzarlo spiegando che «la riduzione del nostro impegno in Libano è già prevista e si farà, sia pur gradualmente».Sta diventando un refrain quello del «ritiro graduale previsto da tempo», che sembra esprimere un pensiero incapace di tener conto che, quando i tempi cambiano vorticosamente e inaspettatamente, quella stessa decisione che ieri poteva apparire magari saggia e comunque indolore, potrebbe oggi essere diventata imprudente e inopportuna.In maniera affatto paradossale, proprio l’attentato di venerdì attesta quanto importante sia il lavoro svolto dai nostri militari nel sud del Libano. I terroristi che hanno fatto esplodere una bomba al loro passaggio ne sono evidentemente consapevoli: più del ministro Calderoli e di certi suoi compagni di partito, si direbbe, i quali evidentemente sognano un’Italia grettamente neutrale, rinchiusa in una sorta di splendido isolamento. Ma non sarebbe lungimirante far venir meno il nostro impegno per la pace in Medio Oriente proprio mentre il mondo arabo sta con fatica e coraggio lottando per emanciparsi da una condizione secolare in cui additare il nemico esterno è il miglior modo con cui le classi dirigenti nascondono i propri deficit di legittimità. Questa lenta e fragile transizione, dal percorso probabilmente assai accidentato, di tutto ha bisogno meno che di un disimpegno della comunità internazionale rispetto al mantenimento della tregua sul confine israelo-libanese. Sarebbe un segnale poco comprensibile, tanto più se emesso contemporaneamente alla decisione del G8 (di cui l’Italia fa parte) di fornire assistenza concreta alla primavera araba. Tutti i governi italiani hanno sempre giustamente annesso grande rilevanza alla nostra inclusione in questo club che, per quanto in fase di ripensamento, rimane l’unica entità di prestigio in cui l’Italia è stabilmente seduta accanto ai Grandi della Terra.Ma stare seduti con i Grandi non basta per esserne all’altezza. Occorre anche e sempre di più comportarsi adeguatamente. Non dare cioè l’impressione che per noi quel che conta è 'esserci' e basta. Su pressione del presidente Obama, il G8 sta cercando di proporsi come una sponda attiva, solidale e aperta nei confronti del mondo arabo. Non sarebbe saggio se dall’Italia, che pure alle decisioni del G8 prende parte, arrivassero messaggi distonici, di chiusura. In questo periodo in cui l’immagine del Paese all’estero – per tanti motivi e per responsabilità non univoche – certo non brilla, l’eccellente lavoro che le nostre Forze Armate svolgono in tanti teatri è apprezzato universalmente, e il prestigio che i nostri militari meritano è una delle poche note positive a margine di un’Italia più criticata che considerata. Diminuire il nostro contributo alle missioni internazionali renderebbe ovviamente un pessimo servizio all’interesse nazionale italiano, e ci priverebbe di una delle poche buone carte che ancora possiamo permetterci di giocare sul tavolo della politica internazionale.A chi ritiene che il taglio dei contingenti potrebbe liberare risorse per iniziative di altro tipo a favore dello sviluppo del Sud del Mediterraneo, è bene ricordare che la prassi consolidata della politica italiana insegna che al venir meno di un impegno oneroso e pregresso quasi mai corrisponde l’attivazione di un nuovo diverso intervento, che comunque comporti un esborso finanziario. Di questi tempi poi…