Opinioni

I segnali di ottimismo nell’economia. La piccola impresa un nuovo rinascimento

Paolo Preti venerdì 27 marzo 2015
La relazione del Garante per le micro, piccole e medie imprese (Mpmi) presentata di recente al Presidente del Consiglio, giunta alla sua terza edizione, parte per la prima volta mettendo in luce alcuni elementi di ottimismo circa l’evoluzione attesa, e in parte già in atto, dell’economia italiana. Di particolare rilievo il fatto che tra le cause di questo cambiamento, quasi tutte di origine internazionale come il calo del prezzo del petrolio, il favorevole cambio euro-dollaro con il deprezzamento del primo, il quantitative easing della Bce, l’unica completamente nazionale sia l’affermarsi sui mercati di un tipo di impresa italiana, quasi sempre di piccola e media dimensione, innovativa, internazionalizzata, coinvolta in aggregazioni interaziendali e con risultati di fatturato e utile superiori alla media del settore di appartenenza. È l’"impresa forte" che, nonostante i molti pregiudizi diffusi in vari ambiti del Paese, economici e non, durante la lunga crisi ha mantenuto la barra dritta pronta a guidare quello che la relazione del Garante identifica come un possibile «rinascimento produttivo».
Non si tratta certo né della totalità delle Mpmi, né della loro maggioranza, ma ciò non ha minore importanza strategica perché nel buio, o ai primi chiarori dell’alba, è importante poter seguire una luce che tracci la strada. Alcuni dati di queste imprese, o più precisamente di quelle citate nella relazione, mostrano spunti di notevole interesse. Vediamone alcuni. Ci sono oltre 190.000 imprese che si internazionalizzano (le stime per il 2016 ne indicano circa 211.000), che affrontano la crisi con una strategia più aggressiva e non difensiva; più di 13.300 imprese estere localizzate in Italia, di cui 12.500 (il 94% del totale) sono Mpmi che vedono il nostro Paese come una opportunità, alimentando e sostenendo le nostre filiere produttive; circa 3.500 medie imprese con fatturato compreso tra 15 e 330 milioni e con livelli di produttività superiori alle analoghe presenti nei principali paesi europei (Germania, Regno Unito, Spagna); circa 3.300 start-up innovative; circa 9.700 imprese in rete attraverso i quasi 2.000 contratti al 31 dicembre 2014, che vedono nell’aggregazione il superamento dei limiti dimensionali; le imprese "diversamente" finanziate che hanno trovato alternative al capitale di debito di origine bancaria: 57 imprese quotate all’Aim di Borsa italiana, 92 operazioni di Mini-bond e più di 200 operazioni di Venture Capital nel 2014; circa 200 "Campioni nascosti", ossia imprese di piccole e medie dimensione innovative e internazionalizzate, generalmente mono-prodotto e mono-mercato (in cui sono leader di nicchia sul fronte estero).
Molto interessanti sono anche gli argomenti degli approfondimenti proposti dalla Relazione: si tratta infatti dei temi all’ordine del giorno per pianificare il futuro di questo segmento di imprese che riguarda, è sempre bene ricordarlo, la quasi totalità delle aziende nostrane: collaborazioni interaziendali, internazionalizzazione, innovazione e tecnologia, finanza per la crescita, economia digitale ed e-commerce, sviluppo professionale e managerialità. Per importanza relativa, concentriamoci sul primo e sull’ultimo punto. Gli accordi interaziendali hanno da sempre l’obiettivo di fare diventare grandi le nostre imprese mantenendole piccole: questo strano gioco di prestigio, di cui la nostra economia ha da sempre estrema necessità, ha trovato nuovo impulso con la legge sul contratto di rete del 2009 e successive modifiche. Dopo l’esperienza dei distretti industriali, tuttora assai viva pur con alcune mutazioni in corso d’opera dopo più di trent’anni di azione, questa del contratto di rete è la forma di maggior successo. Le cifre dimostrano la velocità della sua diffusione tra le micro, piccole e medie imprese e il conseguente gradimento a esso dimostrato. La rete nasce dal bisogno e si fa risposta al bisogno connettendo imprese poste a competere in un mercato sempre più vasto e complesso dove queste, nonostante le loro ridotte dimensioni, hanno saputo/dovuto affacciarsi per sopravvivere. Il problema allora non è "fare rete", ma il riscoprire dentro l’agire imprenditoriale i tratti comuni di questa azione e, dunque, "sentirsi rete", "essere rete".
Alla base di questo successo ci sono sicuramente anche altri fattori, ma il punto di svolta rispetto a tanti tentativi del passato sembra essere il fatto che non si tratti di un disegno, anche perfetto, calato dall’alto, ma di una proposta che nasce dal riconoscimento delle oggettive caratteristiche dell’agire imprenditoriale e che, tenendo conto di queste, intercetta un bisogno. In particolare, quello di mantenere un’elevata autonomia imprenditoriale, fattore tuttora fondamentale per molti piccoli e medi imprenditori: la rete è un soggetto che non paga tasse, che può non avere partita iva, ha solo un codice fiscale ed è la cosa meno burocratica che c’è nel nostro Paese, permettendo a ciascun imprenditore coinvolto di rimanere padrone a casa propria senza vedere diminuite in nulla le proprie prerogative. Nello stesso tempo la rete permette di formalizzare rapporti, di avviare collaborazioni, di ottenere risultati. Molte sono le proposte che la Relazione avanza per dare nell’immediato futuro ulteriore impulso a questo strumento: qui si vuole però sottolineare quella di esportare questo modello in Europa con "l’impostazione di un contratto europeo al fine di favorire l’internazionalizzazione delle reti". Se abbiamo qualcosa di importante a livello economico, a cui il mondo intero guarda con interesse, è infatti il nostro sistema di Mpmi e la sua capacità di evolvere continuamente rispondendo alle sempre nuove sfide della globalizzazione con creatività e fantasia non solo nella qualità dei prodotti e dei servizi ma anche nelle modalità organizzative.
Qualcuno, infine, ha recentemente scoperto l’importanza del capitale umano nelle imprese: anche per chi non ha mai dubitato del valore strategico di questo elemento, è tuttavia chiaro che, come sottolineato dalla Relazione, sta emergendo uno specifico fabbisogno «di nuove figure professionali in grado di creare valore nelle Mpmi». Nella ricerca di un manager adatto a operare in una piccola e media impresa e a diretto contatto con l’imprenditore fondatore o gestore è però più importante la conoscenza delle peculiarità di questa specifica realtà di impresa e la disponibilità-capacità di adattarvisi rispetto al know how tecnico-specialistico detenuto che potrebbe, alla prova dei fatti, non essere sufficiente al buon esito della collaborazione. Chiunque, e a qualunque titolo, voglia dunque facilitare l’incontro tra imprenditori e tecnici-manager esterni deve concentrare i propri sforzi sulla selezione o la formazione di queste figure professionali lasciando in secondo piano interventi economici di supporto diretto o indiretto. Per realizzare questo obiettivo occorre essere estremamente netti nella selezione delle competenze, e a questo processo vanno dedicate elevate risorse temporali e professionali.