Opinioni

Secondo noi. L’implacabile verbo del «genere» detta legge anche sui bambini

Av mercoledì 10 giugno 2015
Chi non concorderebbe sulla necessità di «rafforzare i diritti delle donne disabili, migranti, appartenenti a minoranze etniche»? O non chiederebbe rigore nel «proteggere le donne dalla violenza»? Oppure obietterebbe se si chiedono «adeguati congedi parentali»? Come spesso accade nei documenti più roboanti (e pletorici) del Parlamento europeo, si pretende di dire una parola nobile su un nugolo di grandi questioni creando un consenso vasto attorno ad auspici difficilmente contestabili, per poi arrivare al dunque. E il dunque, nel caso della «Strategia per la parità di genere 2015» adottata ieri, è l’ennesima, stucchevole riproposizione del verbo gender del quale si chiede agli Stati membri l’adozione senza ulteriori tentennamenti attraverso scelte legislative e politiche. Ma stavolta non c’è solo l’abituale sequela di slogan sul dovere di uniformare i diversi modelli di relazione affettiva sotto la medesima categoria di "famiglia", e dunque di "matrimono". In un impeto di accecamento ideologico, la «Strategia» scambia la costruzione della personalità dei bambini per una pericolosa forma di stereotipo da abbattere prima che sia troppo tardi, mettendo in guardia dal considerare la «diversità di genere nell’infanzia» come una forma patologica. Detto altrimenti: i bimbi siano liberi di scegliersi il genere che preferiscono. Sbaragliata anche questa soglia di buon senso, a quali altre radiose frontiere intende condurci l’arroganza ideologica di un gruppone di europarlamentari e la miopia di tanti loro colleghi?