Opinioni

Il lascito di Shenouda III alla comunità degli egiziani copti. Il coraggio del testimone

Marco Impagliazzo martedì 20 marzo 2012
La Chiesa copta d’Egitto, che con i suoi almeno otto milioni di fedeli è oggi la comunità cristiana più numerosa del mondo arabo, ha perso il suo capo, papa Shenouda III. Dal 1971, anno in cui venne eletto alla guida di questa Chiesa minoritaria e al tempo stesso vivace e complessa, è riuscito a rendere i copti protagonisti della vita religiosa, sociale e politica di un grande Paese come l’Egitto. Shenouda, il cui nome civile era Nazir Gayyed Raphael, proveniva da una famiglia della classe media rurale della regione di Assiut. Laureatosi in storia all’Università del Cairo e poi in teologia, fu, dall’inizio degli anni Cinquanta, un giovane esponente del movimento di rinnovamento copto, legato alle cosiddette «scuole della Domenica». Monaco nella regione desertica di Ouadi el Natrun, si dedicò per quasi dieci anni alla vita eremitica. Nel 1962 il patriarca Cirillo VI, che aveva iniziato un profondo rinnovamento della Chiesa a partire dai monasteri, lo consacrò vescovo con il nome di Shenouda. Nel 1971, quando divenne papa dei copti, espressione di una nuova generazione ecclesiastica, si presentò subito come un riformatore, scegliendo di confrontarsi direttamene con il potere politico, perché lottava contro l’emarginazione dei copti dalla vita pubblica e l’islamizzazione della società. Nel 1972, un anno dopo l’elezione, a seguito dell’incendio di una chiesa copta al Cairo, chiese a tutti i preti e ai vescovi residenti nella capitale di manifestare circondando il luogo di culto bruciato per proteggerlo simbolicamente. Fu solo il primo atto di protesta con l’obiettivo di uscire dagli stretti confini di una Chiesa devozionale e garantirsi uno spazio riconosciuto nella società egiziana. Shenouda, vero leader delle proteste insieme ai suoi vescovi, aprì anche un dibattito sullo «statuto dei copti» per rivendicare la parità tra musulmani e cristiani in Egitto. La protesta più clamorosa si registrò nel 1980, quando il capo dello Stato era Sadat, con la soppressione delle celebrazioni pasquali decisa dal patriarca. Un anno dopo il presidente, in seguito a sanguinosi scontri tra musulmani e copti, fece arrestare i principali leader fondamentalisti islamici e sciolse le loro associazioni, ma contemporaneamente fece incarcerare otto vescovi copti e depose il patriarca. Shenouda fu assegnato a residenza sorvegliata in un monastero fino al 1985. In questi quattro anni, la Chiesa fu retta da una commissione di cinque vescovi, anche perché non tutta la comunità copta condivise la prova di forza di Shenouda con il potere. L’opposizione venne da grandi famiglie copte come i Ghali, il cui leader, Boutros, collaborò con Sadat e fu uno degli artefici degli accordi di Camp David nonché, successivamente, segretario generale dell’Onu. Ma anche da Matta El Meskin, figura carismatica del rinnovamento monastico. Dopo l’attentato a Sadat nell’ottobre 1981 e l’avvento di Mubarak, venne avviata una politica di pacificazione nazionale di cui beneficiarono anche le minoranze. Uno degli effetti fu la liberazione dello stesso Shenouda. Il patriarca, uscito rafforzato dalla prigionia, diede slancio alla classe dirigente della sua Chiesa nominando giovani vescovi, interpreti della sua linea. Da allora fino a oggi è stato il leader indiscusso dei copti, trattando con lo Stato senza mediazioni, accentuando gli aspetti «movimentisti» della sua Chiesa e favorendo la coesione della comunità cristiana, attraverso la stampa e i mass media. Shenouda lascia una Chiesa con un forte senso di identità ed elevato livello di partecipazione, specie tra le giovani generazioni. I migliori rapporti con lo Stato si sono tradotti in un sostegno costante alle autorità via via costituitesi in Egitto dopo la caduta di Mubarak, soprattutto nel tentativo di arginare il fondamentalismo. Ora la comunità copta si trova senza guida in un momento molto complesso della storia politica e civile dell’Egitto, stretta tra un riformismo ancora da venire e un islamismo sempre più forte (quasi il 70% dei voti alle recenti elezioni legislative) con cui fare i conti.