Opinioni

Lettere. Il via vai in un pronto soccorso e quella preghiera sussurrata al crocifisso

Le nostre voci di Marina Corradi giovedì 29 marzo 2018

Caro Avvenire,

scrivo per raccontare un fatto quotidiano, di una fresca semplicità, ma che mi ha lasciato stupore.

Stupirsi di ciò che ci è dato, un venerdì mattina, in una chiesa di una parrocchia milanese.

Mi sono fermato a osservare due signore che pregavano: con che passione sussurravano l’Ave Maria, con che speranza nel cuore tenevano in mano le corone del Rosario.

Di turno in ospedale, questa notte penso a loro, penso al loro sguardo fisso sull’altare, sul quel Crocifisso, su quel Tabernacolo. Penso alle grandi e piccole sofferenze di questi pazienti in sala d’attesa in Pronto Soccorso, penso alle mie fragilità di ragazzo, penso alle mie difficoltà. E con lo sguardo teso in quell’Orizzonte, ho speranza.

Ora, mi tornano in mente le parole di Davide Rondoni, che in un articolo scriveva: “Non c’è pace, ma c’è Resurrezione”, e questa notte tutto mi parla di speranza.

Grazie, cordialmente

Marco Crepaldi Milano


Mi immagino quella sala d’attesa di un Pronto Soccorso milanese. Mi torna alla memoria quello in cui io stessa, più di una volta, ho passato ore. Quelle sale sono come porti di mare: chi approda, chi sosta a lungo, chi subito si vede spalancare le porte, perché, per lui, non c’è tempo da aspettare. Vedi immigrati che faticano a spiegarsi in italiano, e temono di essere respinti; madri col velo sul capo e tre bambini aggrappati alle gonne; signore eleganti che hanno fatto una brutta caduta, quasi un po’ stupite di essere lasciate in attesa così, in quell’ambiente disadorno; e, d’inverno, anche, pazienti infagottati e malmessi, rannicchiati su una sedia, che s’inventano un dolore pur di sottrarsi un po’ al gelo di fuori. L’impiegato allo sportello li conosce, sa, e chiude un occhio.

Tutti fermi e zitti sui sedili scomodi, dentro a una luce giallognola che illividisce i muri bianchi, spesso intenti a tormentare la tastiera di un cellulare. Cosa sarà quel dolore improvviso che fa impallidire un figlio, che toglie il respiro al padre? Poi di colpo, da fuori, irrompe con fragore un’ambulanza con la sirena accesa. Stridio di freni, sportelli che sbattono, passi concitati attorno alla barella su cui un vecchio giace esanime, gli occhi chiusi. Di corsa, la barella viene spinta nei locali dell’ospedale. Gli altri, che sono stati muti a guardare, la seguono pensosi con gli occhi. Dall’altra parte della barricata, tirocinante fra i camici bianchi, questa notte c’è un ragazzo. Già conosce quelle espressioni inquiete in sala d’attesa, e l’ansia di chi arriva e si precipita allo sportello dell’accettazione. E i volti tesi di chi, rimasto fuori, aspetta la diagnosi per una persona cara, mentre le lancette dell’orologio sul muro paiono immobili. Quel vecchio poi, quello che hanno appena portato, forse non vedrà l’alba.

Quanto dolore e quante domande ogni notte, nei nostri ospedali. Il giovane tirocinante si sta abituando eppure, per fortuna, ancora non è assuefatto alla sofferenza. La vede, la riconosce, si interroga. Poche ore prima, in una chiesa, lo hanno colpito due signore che a bassa voce recitavano il Rosario. Gli ritornano in mente: come erano intente, lo sguardo fisso al Tabernacolo, nel loro pregare. Per chi, per che cosa domandavano? Per uno solo, oppure in qualche modo anche per tutti, per ogni sconosciuto? Non è così, come gettando una goccia di conforto per un’umanità ignota e dolente, che si dovrebbe pregare?

Il ricordo di quel sommesso e umile sgranarsi di Ave Maria conforta il ragazzo in camice bianco, lo solleva anche dalle sue personali fatiche e incertezze. Il venerdì di Quaresima, ignorato da tanti dentro a quella Milano affaccendata, scorre intanto verso la mezzanotte. Il ragazzo torna con la memoria al Crocefisso su quell’altare, e alla parola di un poeta: “Non c’è pace, ma Resurrezione”. Non è l’oblio, o solo la fine del dolore, cui tendiamo, ma qualcosa di infinitamente più grande. Un’altra vita, vergine, sanata; e di nuovo accanto, vivi, tutti quelli che abbiamo amato. Questo è veramente la Pasqua: intuita in una notte in ospedale, di turno, da un nostro giovane amico lettore.