Opinioni

Realtà da riconoscere. Il valore dei «nuovi» cittadini non è solo l'eccellenza sportiva

Maurizio Ambrosini venerdì 9 luglio 2021

Stanno arrivando alla fase finale gli Europei di calcio, e tra qualche settimana sarà la volta delle Olimpiadi di Tokyo. Questi grandi eventi sono sempre più diventati occasioni per rinvigorire e celebrare l’identità nazionale. Forse mai come in occasione delle vittorie sportive si vede tanta gente in piazza con le bandiere, o con i colori della nazione esibiti in tutte le forme possibili. Persino incautamente, in questo tempo ancora segnato dal rischio pandemico. Non per caso i leader politici fanno a gara per assistere agli eventi sportivi e per apporre il sigillo sui successi delle squadre del proprio Paese.

Le squadre nazionali hanno però anche un’altra caratteristica che colpisce l’immaginazione. Sono delle vetrine della composizione della popolazione nazionale. Ben prima e più dell’Italia, le squadre di molti Paesi europei si sono rafforzate con i talenti scaturiti dalla progressiva integrazione di flussi migratori di svariate provenienze. La Francia è l’esempio che più immediatamente colpisce. Anche se questa volta ai transalpini non è andata bene, la loro bacheca di trofei sportivi è gremita di successi raccolti dai figli dell’immigrazione: prima di origine europea e spesso italiana, poi nordafricana, ora in larga parte dell’Africa sub-sahariana. Non si tratta soltanto di aperture opportunistiche: è la legge francese sulla cittadinanza, storicamente più generosa di parecchie altre, a includere rapidamente nella nazione gli immigrati e i loro figli, che già la abitano e nei fatti ne sono parte. Chi viene da contesti sociali deprivati poi ha più spesso forti motivazioni a investire nello sport, sobbarcandosi i sacrifici necessari per emergere. Diventa un modello che ispira altri giovani, e può esercitare un influsso positivo su di loro. La Germania soltanto dal 2000, quando ha modificato le sue norme sull’accesso alla cittadinanza, ha cominciato a beneficiare dell’apporto dei campioni di origine straniera: l’abbandono di un rigido 'diritto di sangue' ha consentito di allargare i confini della nazione, avvicinandoli maggiormente all’effettiva composizione della popolazione. Questa storica svolta si riflette anche nelle squadre nazionali. Quanto al Belgio, recente avversario dell’Italia, senza Lukaku e Doku ben difficilmente sarebbe riuscito a tenerci col fiato sospeso fino al 97’ dei quarti di finale.

La nostra nazionale è ancora formata quasi interamente da giocatori italiani per discendenza, con le eccezioni di Toloi, Emerson e parzialmente di Jorginho. Sarà ancora più composita alle Olimpiadi, soprattutto in alcune discipline, come l’atletica leggera. Pure la popolazione italiana si sta modificando, quali che siano le opinioni al riguardo. Faticosamente anche la selezione dei suoi rappresentanti sportivi si sta adeguando.

Nello sport succede poi un altro fatto, abbastanza straordinario se confrontato con ciò che accade al di fuori dei campi di gioco: il pubblico non ha difficoltà ad adottare come propri beniamini i campioni di origine immigrata, soprattutto se vincono. È molto raro che qualcuno metta in dubbio la loro idoneità a rivestire la maglia della nazionale. Distinzioni del tipo 'i veri italiani' (o 'i veri francesi') scompaiono, o quasi, di fronte all’eccellenza sportiva.

Da tutto questo scaturiscono tre riflessioni. In primo luogo, sarebbe auspicabile che per una volta lo sport fosse davvero maestro di vita: che un analogo cambio di mentalità si allargasse dal mondo agonistico alla società nel suo complesso. Secondo, una legge sulla cittadinanza più liberale non solo sarebbe più corrispondente alla configurazione attuale della popolazione italiana, ma arricchirebbe le squadre azzurre di un maggior numero di campioni. Darebbe inoltre alle seconde generazioni dei modelli positivi di identificazione nazionale. Terzo, la spontaneità nell’adottare i bravi giocatori come figli della nazione dovrebbe valere anche per tanti giovani che non sono fenomeni dello sport, ma comunque persone con altri talenti, degne di essere riconosciute come componenti a pieno titolo della comunità nazionale.