Opinioni

Base Jumping: 300 morti. Il sogno di Icaro è la «tuta alare». La libertà e il limite

Mauro Berruto giovedì 13 aprile 2017

I base jumpers Frode Johannessen and Ronny Risvik durante una gara

Il Base jumping è uno sport estremo che consiste nel lanciarsi nel vuoto da varie piattaforme (l’acronimo B.a.s.e. sta proprio a indicare Buildings, Antennas, Span o Earth, ovvero edifici, antenne, ponti o formazioni naturali come scogliere o cime alpine). Nato come un’evoluzione del paracadutismo, questo sport si è trasformato dal momento dell’introduzione delle tute alari, strani costumi in nylon che, nel momento del salto, gonfiano le proprie membrane di aria consentendo un volo planato che permette di sfiorare le cime degli alberi o le rocce e simula ciò che potrebbe provare un uccello in un’unica, rapida picchiata.

La posta in gioco diventa altissima, i margini di errore ristretti e le sensazioni primordiali, così intense da dare dipendenza. Il 2016 è l’anno in cui il Base jumping ha fatto più morti: trentasette. Ventisette di loro indossavano una tuta alare. Esiste un archivio (non ufficiale e non esaustivo) che, purtroppo, si aggiorna frequentemente: si chiama Base Fatality List e raccoglie gli incidenti mortali avvenuti a partire dal 1981. Ormai ha superato i 300 nomi, ultimo dei quali quello di Nicola Galli, morto in Trentino due settimane fa. C olpisce il fatto che l’esperienza non sia un fattore determinante per scongiurare i rischi. Nello scorso agosto sono morti il bolzanino Uli Emanuele e l’italonorvegese Alexander Polli, due dei piloti di tuta alare più esperti al mondo. Uli, 29 anni, era una vera star. Un suo filmato su Youtube, girato con una telecamera indossata sul casco, in cui vola attraverso una fessura di due metri in una formazione rocciosa, ha più di 7,5 milioni di visualizzazioni. È morto contro una parete di roccia in Svizzera, una settimana prima di Alexander, 31 anni, atleta molto amato e stimato nell’ambiente per il suo carisma, la sua esperienza e le sue abilità, schiantatosi contro un albero nei pressi di Chamonix. Per migliaia di anni l’uomo ha lavorato per realizzare il sogno di volare liberamente, senza essere confinato in un veicolo.

Un poetico e insieme tragico avanguardista fu Franz Reichelt 'il sarto volante'. Nato a Vienna nel 1879, si trasferì ventenne a Parigi dove aprì, con un certo successo, una boutique di abbigliamento. Il suo sogno, però, era un altro: volare. Inventò un abito, tagliato e cucito con le sue stesse mani, che si apriva come una sorta di deltaplano assicurando, nel suo immaginario, una planata lieve e sicura. Effettuò diversi lanci di prova con dei manichini finché, stimolato da un concorso indetto dall’Aéro-Club de France, Reichelt portò a compimento un prototipo che pesava venticinque chili e aveva un’apertura alare di dodici metri quadrati, pensato per far volare esseri umani. L’esemplarità, quando si tratta di avanguardia, è sempre un valore, così il sarto volante chiese l’autorizzazione per saggiare l’efficacia della sua invenzione saltando giù dalla Torre Eiffel: dentro alla tuta ci sarebbe stato lui. Reichelt fissò il suo appuntamento con la storia il 4 febbraio 1912, alle sette di mattina. Quella gelida domenica, di fronte a una trentina di persone, salì sul monumento simbolo di Parigi. Era chiaro a tutti che avrebbe collaudato personalmente l’invenzione. Molti tentarono di dissuaderlo, ma il sarto pareva essere molto sicuro di sé. Reichelt salì le scale fino alla prima piattaforma, in compagnia di due amici e di un cineasta, impaziente di immortalare l’impresa. Alle 8:22, rivolgendosi verso la Senna, montò su uno sgabello collocato sopra a un tavolo dell’adiacente ristorante, circa 57 metri sopra il livello del suolo. Dopo essersi congedato dallo scarso pubblico con un raggiante 'À bientôt!' e aver misurato la direzione del vento lanciando in aria un pezzetto di carta, esitò per quaranta infiniti secondi, per poi mettere un piede sul parapetto e finalmente lanciarsi. Morì d’infarto, sentenziò l’autopsia, mentre precipitava avvolto da quella stoffa che gli si attorcigliò attorno al corpo, pochi secondi prima di schiantarsi sul suolo ghiacciato, con un urto terribile. T ra gli anni 30 e 70 del Novecento negli air show di tutto il mondo, folle accorrevano per emozionarsi e ammirare 'uomini volanti' che si cimentavano con primitive tute alari.

Un’ecatombe, fino al comparire sulla scena di un personaggio leggendario, diventato famosissimo anche nel mondo della pubblicità, che segnò la storia di questo sport: il francese Patrick de Gayardon, morto nel 1998 nel cielo delle Hawaii per un malfunzionamento della tuta alare di cui era stato grande sviluppatore, ispirandosi ai piccoli marsupiali chiamati scoiattoli volanti. Il giorno dopo la sua morte la Gazzetta dello Sport, gli dedicò la 'quarta di copertina' con questa frase: «Ci sono uomini che con le loro invenzioni hanno cambiato il nostro modo di vivere. Altri, quello di sognare». Un anno dopo la tragedia due jumpers, il croato Robert Pecnik e il finlandese Jari Kuosma, inventarono il prototipo della tuta alare ancora in uso, migliorando quella sperimentata dal francese. Pecnik e Kuosma collaudarono con successo la loro creazione e poi fondarono un’azienda, la BirdMan, che lanciò la tuta sul mercato. Utilizzate lanciandosi dagli aerei, le tute alari si rivelarono molto sicure, ma anche poco soddisfacenti. Tuffarsi da 6.000 metri di quota con una tuta alare non intensifica di molto la sensazione di volo libero: per realizzare davvero il sogno di Icaro, bisognava paradossalmente sfiorare più da vicino gli ostacoli e, quindi, la morte.

Sono passati 105 anni dal volo di Reichelt, diciannove dall’ultimo tragico volo di De Gayardon. Sono cambiati i materiali, le conoscenze scientifiche. È cambiato il mondo. È cambiato il modo di comunicare, il modo di emozionarsi. È cambiato il concetto stesso di frontiera e il modo di difendere o superare i confini, fisici o virtuali che siano. Ma non è cambiato uno dei desideri più grandi, una delle frontiere più incredibili e inspiegabili dell’esistenza degli esseri umani: il sogno di volare. Nessuna differenza fra Icaro, Leonardo, Reichelt, De Gayardon o quelle decine di uomini che negli ultimi mesi hanno perso la vita in incidenti con la tuta alare. Non c’è periodo storico che tenga, quel desiderio è più forte di qualunque ragione. Volare, sinonimo di una libertà assoluta. Un golem gelido, lì sospeso in attesa di cibarsi di vite umane, come il ragno al centro della sua ragnatela attende l’insetto che, inevitabilmente, ci finirà dentro. È impossibile giudicare. Nella storia dell’umanità spesso il prezzo più alto lo hanno pagato migliaia di esploratori, inventori e forse, semplicemente, sognatori.

Nei primi anni del Novecento dozzine di intellettuali e artisti si schiantavano su aeroplani che guardati oggi fanno tenerezza. Fragili, come fiori delicati, ma capaci di contenere i frutti del futuro. Se oggi, con una manciata di euro, saliamo su un aeroplano low cost e passiamo un weekend a Dublino o a Oslo, lo dobbiamo a gente come Léon Delagrange o Jorge Chávez, gentlemen quasi sconosciuti, che duellavano per salire 20 o 30 metri in più in quota o restare in volo qualche minuto in più e che hanno perso la vita accartocciandosi dentro le fusoliere di legno di aeroplani che atterravano su ruote di bicicletta. I nostri figli si faranno portare in giro da automobili che si guideranno da sole. Prima ancora (anzi, parzialmente già lo fanno) toccherà proprio agli aeroplani. È il futuro. Gli atleti sono liberi di definire i limiti dei loro sport e poi cercare di oltrepassarli. Questa libertà è un’arma a doppio taglio. Da una parte, favorisce un approccio creativo e artistico per queste attività straordinarie. Dall’altra, ha portato a una cultura nella quale bisogna assumersi rischi sempre più grandi, prendere decisioni sempre più ardite e stringere i margini della sicurezza.

È questo il motivo di tante vite spezzate? Andy Lewis, atleta estremo californiano, azzarda un’ipotesi: «Muoiono tanti jumper esperti perché tentano salti in cui non è possibile lasciarsi un margine d’errore. I margini stretti sono diventati lo standard di questo sport. È questo che uccide la gente». Matt Gerdes, capo pilota collaudatore e co-designer alla Squirrel, azienda americana produttrice di tute alari, con all’attivo circa 1.200 salti senza incidenti, è ancora più netto: «La semplice verità – ha scritto su Facebook – è che i jumpers in tuta alare non sanno a cosa vanno incontro, come agire in sicurezza, non ne sanno abbastanza nemmeno per potersi rendere conto di quanto poco sappiano». Oggi i tessuti sono hi-tech, le immagini sono diverse dalla pellicola in bianco e nero capace di restituire, con inquietante iperrealismo, quelle esitazioni premonitorie di Reichelt, prima del suo grande salto. Oggi le tute sono ipertecnologiche e microtelecamere raccontano tutto. Tutto in soggettiva, perfino lo schianto. Resta la sensazione di un’infinta rincorsa, folle e romantica, verso l’archetipo più universale del sogno dell’uomo, il più affascinante. Resta la sensazione che la volontà individuale di ricerca del limite e di un suo racconto in soggettiva stia prevalendo sull’idea di contribuire a un futuro migliore. E tutto ciò costituisce un inequivocabile segno di questo nostro tempo.