Opinioni

La sentenza un contropiede culturale. Il senso del limite sul fumo di cannabis

Francesco Ognibene sabato 1 giugno 2019

Basta chiedere. Si può liofilizzare in queste due paroline la crescente attesa di vedere presto o tardi riconosciuti come diritti molteplici e variegati desideri individuali, argomentati pubblicamente da gruppi di pressione, circoli intellettuali e mediatici, partiti o loro componenti, prodotti culturali di largo consumo. La forma assunta da questa campagna a tutto campo è quella della presunta 'laicizzazione' di una società come quella italiana, ritenuta da questa narrazione iper-libertaria ancora irrigidita da un eccesso di regole etiche e dall’adesione a comportamenti dettati da una morale tradizionale, d’ispirazione prevalentemente religiosa.

L’istanza del 'vietato vietare' consolidata in ideologia di massa ha progressivamente spinto oltre confini ritenuti a lungo consolidati la frontiera delle pressioni per l’abbattimento di muri portanti dell’etica pubblica con una spinta che non si è più arrestata, guadagnando velocità col progredire delle conquiste simboliche. Così che nelle praterie di esperienze esistenziali di base si è fatta largo un’antropologia radicalmente alternativa, ispirata all’utopia della libertà assoluta di scelta e a un modello ideale di società in grado di soddisfare ogni tipo di richiesta, nel nome della massima tolleranza. È a questa vera e propria ideologia turbo- liberale e individualista che si deve un gran numero di decisioni a ricaduta collettiva su ambiti costitutivi della nostra comune esperienza umana, quali il generare e il morire, creare una famiglia e crescere figli, porre argini definiti a comportamenti ritenuti devianti, o limitare condotte considerate lesive della dignità umana. Tutto cambia, nulla resta – è la morale di questa campagna culturale di lungo periodo –, i princìpi sono soggetti a essere ridiscussi e mercanteggiati, di tempo in tempo, sulla base delle esigenze che emergono.

Per questo molti sono sembrati come colti di sorpresa quando la Cassazione a sezioni penali unite ha pubblicato giovedì una sentenza che imprime un brusco colpo di freno alla legalizzazione di alcune tipologie di cannabis «per uso ricreativo». Ma come – è sembrato di sentir dire –, non ci avevate promesso che un passo dopo l’altro tutto sarebbe stato possibile, incluso il consumo di droghe leggere? Invece la Suprema Corte ha emesso un verdetto che parla un’altra lingua, e comprensibilmente il fronte dei liberalizzatori già annuncia interpretazioni affidate ai giudici di merito caso per caso, class action e manifestazioni di piazza per sventare la temuta implosione di un settore produttivo giovane quanto la legge 242 del 2016 («Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa »), che puntando su più prodotti derivati dalla pianta – si pensi solo ai tessuti e a diverse tipologie di biomateriali – dovrebbe però resistere al taglio di quello che è solo un suo segmento di consumo, sebbene di gran lunga col maggiore appeal.

Una sentenza non può rovesciare un complesso trend culturale quale quello che ha portato all’attuale società nella quale prevalgono le istanze individuali di ogni tipo, i fattori di disgregazione anteposti a quelli in grado di unire nel nome di un interesse comune, i narcisismi manifestati in plurime richieste 'liberanti' di ogni tipo. Neppure si può credere che le più autorevoli magistrature del nostro ordinamento plasmino le loro pronunce assecondando un’etica à-la-carte ben sponsorizzata o, viceversa, ogni tanto dando ragione a chi teme la dissoluzione delle (poche ma essenziali) architravi del vivere comune. Come se la giurisprudenza fosse un pendolo con esiti esposti al tifo degli ultras dell’uno o dell’altro fronte.

Certo è che pronunciamenti con questo impatto sulla coscienza del Paese vengono decifrati dai cittadini dentro lo 'spirito dei tempi', potentemente sospinto dal principio di autodeterminazione declinato sino all’insindacabilità: ognuno deve poter fare ed essere ciò che desidera. Il contropiede della Cassazione rispetto a questa pretesa non poteva dunque essere più spettacolare. Ma solo perché la retorica del 'dirittismo' sembra aver silenziato un punto fermo della vita personale e collettiva: il senso del limite, che ricordandoci con alcune regole elementari che non tutto ci è possibile pone un argine alla frantumazione di qualunque comunità, dalla famiglia allo Stato. Di limiti accettati in base a un’etica condivisa che li nutre vivono la democrazia, la capacità di includere senza pensarsi autosufficienti o minacciati da altri, il senso del rispetto per ogni vita affaticata, povera, migrante, difettosa, inattesa, che chi contempla ancora la propria limitatezza accoglie come una risorsa in più e non come un’insidia al geloso orto dei propri 'diritti'. Ecco perché nelle parole della Cassazione c’è ben più del divieto di 'farsi una canna' a norma di legge.