Opinioni

Tra fondamentalismo e nazionalismo. Il segno di contraddizione

Gabriella Cotta venerdì 29 agosto 2014
Il quadro politico internazionale odierno è altamente critico, nel moltiplicarsi di aspri conflitti, ciascuno dei quali capace di destabilizzare in profondità il Pianeta. L’elenco è lungo e coinvolge perfino l’Europa dove, neppure ai tempi dello smembramento dell’ex Jugoslavia, si era mai verificata una situazione potenzialmente così pericolosa, essendo lo scontro tra Ucraina e Russia non più regionale, ma suscettibile di destabilizzare l’equilibrio tra l’intera Unione Europea e la Russia di Putin. Ma anche oltre i confini europei, l’elenco è drammatico: il conflitto tra Israele e Hamas, la minaccia devastatrice dell’autoproclamatosi Califfato, la cronicizzazione della guerra civile in Siria, le tensioni e le insurrezioni che travagliano o disfano addirittura, come in Libia, i fragili tessuti statali dei Paesi del Nord Africa, le ostilità che spaccano il mondo musulmano, il ritorno dei taleban in Afghanistan e la loro influenza in Pakistan, Paese detentore di potenziale nucleare, le guerre mai sopite in troppe Stati africani, dal Niger al Mali al nord della Nigeria di Boko Haram al riproporsi della guerra civile in Sud Sudan all’indomani di un’indipendenza conquistata dopo decenni di lotte... La rassegna, incompleta, è terrificante e l’incapacità di trovare soluzioni pacifiche alla maggioranza di tali conflitti è ben esemplificata dalla guerra israelo-palestinese che (malgrado la recente tregua) dimostra a chiare lettere tanto il tragico avvitamento delle logiche fondamentaliste e di contrapposizione identitaria, quanto la sterilità dell’antico adagio si vis pacem para bellum. Gli arsenali di Israele sono e saranno –fino a quando tuttavia? – in grado di proteggerne la sopravvivenza, ma non certo di assicurare la pace, mentre la strategia della tensione di Hamas ne causerà la resurrezione politica ma a costo di distruzioni e di perdite tali di vite umane tali da mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dei palestinesi come popolo. Tanta violenza autodistruttiva va ricondotta principalmente a due paradigmi culturali che spesso si intrecciano tra loro: fondamentalismo e nazionalismo, spesso moltiplicati nei loro effetti da corposi interessi economici e declinati come violente affermazioni identitarie. Abituati come siamo a vivere in contesti altamente secolarizzati e desacralizzati, dobbiamo chiederci che cosa provochi la trasformazione di sentimenti religiosi nella direzione distruttiva del fondamentalismo per trovare la ragione di una delle grandi e più trascurate tragedie del nostro tempo: il rinnovarsi apparentemente privo di motivazioni, ma sempre più diffuso, di drammatiche violenze contro i cristiani, ridiventati da tempo i credenti più perseguitati al mondo. La religione diviene fondamentalismo quando, invece di indicare all’uomo la strutturale carenza della sua natura e la necessità di aprirsi all’ulteriorità della trascendenza – dimensione nella quale solo si radica in modo convincente l’uguaglianza fraterna degli esseri umani, tutti creati per e dall’amore universale che costituisce il senso e il fine di e per ciascun uomo – pretende di stabilire nella storia un regime assoluto di verità. Da questo e su questo soltanto scaturirebbe il bene di popoli, individui, relazioni, Stati. Con ciò si nega la natura stessa della religione, il cui etimo dice la sua funzione di legame – mai completamente realizzato, sempre perfezionando – tra immanenza e trascendenza, e si pretende, invece, di fissare nella storia la realizzazione di un modello esemplare dalle pretese salvifiche per il qui e l’ora mentre l’al di là diviene tanto più lontano, quanto più forti e immediate si fanno le pretese politiche. È evidente che, in questo quadro, non vi è spazio per i cristiani, destinati, come avviene in Medio Oriente, in Pakistan, in Nigeria, a essere espunti violentemente come corpi estranei da tali sistemi politico-religiosi. Essi, infatti, sono i testimoni scomodi di un modello di umanità – quello di Cristo – che indica con estrema chiarezza la radicale insufficienza del mondo e delle sue pretese salvifiche, rivendicando un’identità che per l’appunto non discende da un sistema politico e politico-religioso, ma, in primis, dalla somiglianza ontologica con il Figlio dell’Uomo. Nello stesso modo i nazionalismi sfociano nel razzismo o nell’intolleranza quando, invece di custodire e far vivere creativamente la storia, le tradizioni, i costumi di un popolo, consapevoli del valore identitario e delle ricchezze che vi sono racchiuse, ma anche dell’evoluzione che le future generazioni e il mutare delle relazioni internazionali imprimeranno loro, perdono la consapevolezza della inevitabile settorialità che contraddistingue la storia di ogni popolo rispetto ad altre e diverse tradizioni. Questa consapevo-lezza, chiaramente conservata dal senso comune che, nelle più banali storielle sulle caratteristiche salienti e ridicole di ciascun popolo, ne fotografa scherzosamente la ricca diversità, dovrebbe, invece, essere presente alla coscienza di ciascun popolo a fondamento della reciproca tolleranza e rispetto. Il ruolo dei cristiani oggi, è più che mai singolare segno di contraddizione, stretto tra le pressioni culturali di un orientamento radicalmente antinaturalistico e nichilistico e la violenta rinascita di fondamentalismi intrisi di nazionalismo. Tuttavia, la richiesta crescente di recupero di significati universalizzanti - a superamento dell’eccesso di individualismo autoreferenziale che ha dominato l’orientamento globale degli ultimi decenni - sembra dischiudere proprio per loro, magari a costo del loro sangue, un ruolo di fondamentale responsabilità, culturale e personale.