Opinioni

Le misure annunciate da Trump. Il ritorno al «made in Usa» tra operai, migranti e robot

Elena Molinari venerdì 3 febbraio 2017

Il patto proposto da Donald Trump all’industria manifatturiera – a quella dell’auto in particolare – è all’apparenza semplice. Il presidente Usa ridurrà le tasse per le aziende, taglierà (fino al 75%, assicura) gli standard di legge su rispetto ambientale, sicurezza del lavoro e garanzia dei prodotti. In cambio chiede investimenti, rigorosamente negli Usa: fabbriche chiuse in Messico e Cina e riaperte in Tennessee, Michigan o Illinois per ridare la speranza di uno stile di vita da middle class agli operai che hanno votato per il tycoon. Ha l’aria di un’offerta interessante per il mondo della produzione, premesso che sia realistica. La sua fattibilità potrebbe essere secondaria, però, perché Trump non ha lasciato molta scelta ai colossi industriali. Se non fabbricheranno in America i beni destinati ai consumatori americani incorreranno nelle punizioni del presidente: dazi del 35% su ogni auto, frigorifero o condizionatore d’aria che introdurranno negli Usa. E interminabili invettive via Twitter in grado di falciare profitti, titoli azionari e persino carriere.

Non a caso gli amministratori delegati delle tre sorelle dell’auto di Detroit, ma anche di società manifatturiere come Dell, Whirlpool, Johnson & Johnson e Lockheed Martin, si sono affrettati a fare annunci in linea con i desideri del nuovo capo della Casa Bianca. Fiat Chrysler ha detto che investirà un miliardo di dollari per modernizzare due impianti nel Midwest degli Usa e creare 2mila posti di lavoro. General Motors ha lodato la promessa riforma fiscale e la «razionalizzazione delle normative», soprattutto sulle emissioni inquinanti, e assicurato che è pronta a scommettere un miliardo sul made in Usa. Ford ha ritirato il progetto di un impianto in Messico per investire 700 milioni in una fabbrica in Michigan. Volkswagen guarda avanti e promette 7 miliardi di dollari prima del 2019 per fabbricare, fra l’altro, un Suv in Tennessee. Il nuovo Suv di Daimler invece vedrà la luce in Alabama.

Allo stesso tempo, però, i Ceo non nascondono che un repentino trasferimento della produzione dal Messico potrebbe avere conseguenze impreviste. «La realtà è che l’industria messicana da un certo numero di anni dipende dal mercato americano – ha spiegato l’ad di Fiat Chrysler, Sergio Marchionne –. Se il mercato statunitense dovesse essere chiuso le ragioni della sua esistenza sarebbero a rischio». Attualmente un quinto di tutti veicoli in Nord America emergono da catene di montaggio messicane, che secondo il Centro di Ann Arborbased for Automotive Research hanno attirato investimenti per oltre 24 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni. La loro anche parziale chiusura avrebbe gravi ricadute sull’economia messicana, già in stallo e messa a dura prova da un aumento del prezzo della benzina deciso dal governo. «Per @realDonaldTrump: più posti di lavoro distrugge in Messico, più immigrati gli americani avranno. Pensaci!», ha riassunto su Twitter l’ex presidente messicano Felipe Calderon. Questi terremoti nei Paesi ad alto tasso manifatturiero sono quasi inevitabili, però, a detta di molti osservatori dell’industria occidentale – e non solo a causa degli ultimatum di Trump. Come fanno notare analisti e ricercatori, infatti, l’esodo della produzione dal Messico (e dalla Cina) era iniziato prima dell’elezione del magnate dell’immobiliare.

Fca aveva già segnalato piani per l’espansione di furgoni e Suv e la produzione di piccole e medie vetture in due fabbriche degli Stati Uniti. I dirigenti di Fca, come quelli di Ford, GM e Toyota, fanno notare che nel loro settore l’orizzonte decisionale per gli investimenti è di 8, 12 o 14 anni, non poche settimane. Il reshoring, come è stato chiamato il ritorno della produzione verso le sponde Usa, è in effetti una tendenza in atto da qualche anno, spinta da imperativi economici prima che vi si aggiungessero quelli politici. Risale ad esempio al 2012 la decisione di General Electric di investire un miliardo di dollari in un impianto di elettrodomestici a Louisville, in Kentucky, riportando a casa quattromila posti di lavoro che erano stati spediti in Cina e Messico. Per la maggior parte delle aziende il calcolo a favore di operazioni produttive statunitensi è chiaro. La retribuzione oraria della manodopera cinese e messicana si è moltiplicata tra il 2000 e il 2013. A questo si aggiunge l’accresciuta disponibilità di petrolio e di gas naturale a basso costo negli Stati Uniti, che ha fornito vantaggi alle industrie ad alta intensità energetica ancora prima del più recente crollo dei prezzi del petrolio. Gli operai americani tendono a essere più flessibili dei loro omologhi in Paesi meno sviluppati e, soprattutto, il numero di posti necessari per produrre componenti meccanici o elettrici si è ridotto notevolmente grazie all’automazione. Come Jeff Immelt, il Ceo di General Electric, ha illustrato nel 2013: «Oggi il prodotto è il processo. Se si guarda a un motore di un aereo, il contenuto del lavoro è probabilmente inferiore al 5%. Abbiamo due ore di lavoro in un frigorifero. Quindi in realtà non importa più se si produce in Messico, negli Stati Uniti o in Cina». Il costo medio dei beni prodotti negli Stati Uniti è infatti oggi dal 4 al 6% superiore a quello della Cina, e i costi di spedizione al venditore sono molto più bassi.

Ma se una maggiore automazione ha contribuito al ritorno di molte aziende in patria, l’altra faccia della medaglia è che il numero dei lavori che rientrano negli Usa è di molto inferiore a quelli che se n’erano andati. Secondo i dati forniti da Initiative Reshoring, un’organizzazione senza scopo di lucro, il reshoring ha prodotto negli Stati Uniti 67mila nuovi addetti nel 2015. Questo include impieghi tornati e posti creati che cinque o 10 anni fa sarebbero stati spediti all’estero. Ma dal 2000 fino al 2007 gli Stati Uniti hanno perso ogni anno circa 220mila posti di lavoro nell’industria a causa dell’offshoring. Due ricercatori del Massachusetts Institute of Technology come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, che hanno studiato il fenomeno, concludono che la battaglia di Trump per riportare occupazione operaia negli Usa è miope: «Se si guardano le tipologie di attività che sono state mandate all’estero negli ultimi venti anni si vede che sono relativamente di routine – dicono –. Vale a dire compiti facili da automatizzare, ora o in futuro». La delocalizzazione, secondo loro, è stata per molte aziende un passaggio temporaneo per tagliare i costi mentre completavano l’automazione.

Può essere che la tecnica del bastone e della carota usata da Donald Trump per riportare la produzione negli Usa funzioni, accelerando un fenomeno già in atto. Ma la sua accelerazione potrebbe avere effetti destabilizzanti altrove – in Messico, ad esempio – senza creare benefici occupazionali consistenti e duraturi negli Usa. Come conclude Martin Ford, autore del libro Rise of the Robots, «questa tendenza economica e politica non farà molto per la classe lavoratrice americana».