Opinioni

Il mercato della vita. Sulla pelle dei poveri e dei deboli

Giuseppe Anzani mercoledì 8 febbraio 2017

Oggi è la Giornata internazionale contro la tratta di esseri umani. Singolare e tragica incombenza di lotta che gli abitanti della terra sono forzati a combattere non contro una minaccia esterna, o lo stento, o la cieca tragedia d’una natura matrigna, ma contro se stessi, contro una crudeltà annidata nelle proprie stesse viscere, contro il mistero di un male che non ha più volto umano.

Esistono, dentro la categoria dell’umano, profili disumani? Lo stesso antico linguaggio della predazione, negando al nemico, al barbaro, allo straniero, all’espulso il volto dell’appartenenza e dell’inclusione, è il primo sintomo di una disumanità feroce. Tenuta sin per normale, in antico e ancora a ridosso della modernità, se pensiamo allo schiavismo storico. E fatta poi cosciente a fatica della sua turpitudine, se dopo infinite tragedie gli uomini hanno consegnato nell’ultimo secolo a pagine solenni di Trattati e di Carte l’orrore e il ripudio dell’orrore, cacciandolo fuorilegge. Tante, troppe forse per poter dire che sian state efficaci, dentro quel secolo così insanguinato, a partire dalla Convenzione di Ginevra sulla schiavitù, di 90 anni fa, fino alla Convenzione del Consiglio d’Europa firmata a Varsavia nel 2005, passando per una biblioteca intera di atti internazionali. Fra questi, uno ci sembra esplicito e vigoroso: il Protocollo Onu del 2003 noto come la “Carta di Palermo”.

La tratta di esseri umani vi è definita come forma di schiavismo di cui sono vittime le persone reclutate e trasferite con l’uso della forza, della coercizione, del rapimento, della frode, dell’inganno, dell’abuso, «a fini di sfruttamento». Eccola, la parola disumana, lo sfruttamento; traguardo di tornaconto e di ferocia predatoria.


Ci sono due solchi profondi di sfruttamento: il sesso e il lavoro forzato. Quando nelle nostre città gli uomini scendono in auto lungo i viali, dove si vendono ormai le bambine, si fanno complici postumi di uno stupro dell’anima già avvenuto, e ribattono i ceppi d’una schiavitù senza nome. Quando i bambini, i minori «non accompagnati», o anche gli adulti sono utilizzati come braccia da fatica con paghe da fame, chi lucra sulla loro disperazione è né più né meno che un moderno negriero.


C’è un profilo comune che allaccia i solchi dello sfruttamento, ed è la degradazione d’un essere umano a un corpo, a una macchina utile, a una sorta di materiale. Fino a farci sentire un brivido quando ci si conferma che parti del corpo di vittime possono essere prelevate (e rapinate!) come “pezzi di ricambio” di organi. Ciò svela infine la radice unica dello sfruttamento molteplice che presiede a ogni tratta di esseri umani: la negazione del volto, il tradimento della verità basilare che ogni essere umano è «uno di noi». Una radice che affiora, a volte, anche in quello che sembra diventato in taluni Paesi il “mercato della vita”, se gli embrioni sono intesi come materiale biologico e il grembo di madre un contenitore affittabile.

Gli ultimi studi dicono che gli schiavi nel mondo, vittime di tratta, sono oltre 21 milioni. E che in Italia lo sfruttamento sessuale colpisce dalle 50 alle 70mila donne, mentre circa 150mila sono gli uomini sfruttati col lavoro da schiavi, in gran parte giovani migranti. Sono questi gli esseri umani che attendono protezione, con l’urgenza almeno pari a quella di castigare i trafficanti. Oggi l’intreccio fra tratta e migrazione è sotto gli occhi di tutti, e non gioverà schierarsi a parole contro la tratta se i fuggiaschi e i naufraghi delle guerre e degli stenti, prede elettive dei mercanti di carne, troveranno muri ostili, rifiuto, esclusione, abbandono. Salvarli occorre, salvarli.