Opinioni

Rignano. Il rogo del Ghetto e il diritto alla casa e al lavoro

Antonio Maria Mira sabato 4 marzo 2017

Sarebbe facile e scontato dire «l’avevamo detto». Ma è la verità. L’avevamo detto e l’avevamo scritto. Tante volte abbiamo scritto del gran ghetto di Rignano Garganico. Di questa 'città fantasma', che tanti hanno ignorato per anni, soprattutto le istituzioni locali e regionali. Ed è arrivato il fuoco a ricordarcelo, portandosi via due giovani lavoratori africani. Sì, lavoratori. Non richiedenti asilo, profughi né irregolari o come piace digrignare a qualcuno «clandestini».

A Rignano Garganico come a Cerignola a Rosarno a Castel Volturno o a Vittoria ci sono immigrati regolari, con permesso di soggiorno. Sono qui per lavorare, spostandosi seguendo le stagioni e le produzioni agricole. Come tanti lavoratori italiani. E noi come li ospitiamo? Baraccopoli e ghetti. Luoghi di sfruttamento e di illegalità, piccola e grande. Luoghi di confine, di autogestione e autosussistenza. Dove i caporali hanno buon gioco. Ma non ne sono loro la causa. Anche se ne approfittano e ci sguazzano come pescicani. Ghetti e caporali sono il prodotto di un sistema economico e sociale incapace di offrire lavoro e accoglienza in modo onesto, pulito, umano. E non si dica che non si può.

In Trentino, Italia, le aziende agricole danno lavoro e casa ai lavoratori migranti. Casa, non baracca. Perché non così anche in Puglia, Campania, Calabria e Sicilia? Si parla tanto di accoglienza diffusa per superare gli ammassamenti disumani. Ma senza il coinvolgimento di tutti non è possibile. Non si può chiedere solo al volontariato. Anche perché sarebbe assistenza, pur preziosa, e non diritto. Già, forse per qualcuno, anche qualche politico alla ricerca di un facile consenso, parlare di 'diritto' suona strano, ma questo sono il lavoro e la casa. Per tutti coloro che lavorano nella repubblica fondata sul lavoro, italiani e migranti. Ma se l’economia di un territorio sceglie di vivere di sommerso, non potrà che offrire ghetti e baracche. Tutto si tiene. Sta alle organizzazioni agricole, alcune delle quali continuano a lamentarsi della legge contro il caporalato, fare scelte nette. Sta alla politica, alle istituzioni centrali e locali, fornire norme, progetti e se serve finanziamenti. Ma anche controllare e sanzionare duramente. Altrimenti i ghetti bruceranno senza chiudere. E torneremo a scrivere «l’avevamo detto».