Opinioni

La sfida per il 2020. Il grido della Terra e dei poveri chiede sogni e nuova profezia

Luigino Bruni lunedì 30 dicembre 2019

Il 2019 verrà ricordato per due novità epocali, tra loro intimamente connesse: un nuovo protagonismo dei giovani e degli adolescenti e una consapevolezza globale della drammaticità e irreversibilità della crisi ambientale. I giovani, a cinquant’anni dal 1968, sono tornati a essere il primo elemento di cambiamento e di vera innovazione sociale e politica. Hanno impiegato alcuni decenni a trovare il loro posto nel "nuovo mondo". Dopo la fine delle ideologie hanno attraversato una eclisse civile e culturale, sono rimasti ammutoliti e schiacciati come in un lungo "sabato santo", tra un mondo che finiva e uno che tardava troppo a venire. Sono stati abbuiati dal lutto dei genitori e dei nonni, e si sono riversati nelle piccole cose – videogiochi o smartphones - per la morte di quelle grandi. Perché se è vero che tutti siamo usciti disorientati e delusi dal Novecento, i giovani hanno sofferto e soffrono di più e più profondamente per la fine delle narrazioni collettive, delle utopie, dei sogni grandi. Da adulti si può resistere molto tempo senza sognare insieme, da giovani si resiste molto meno, perché l’utopia è il primo cibo della gioventù.

Ma la fine dell’utopia – il non luogo – ha (ri)generato un nuovo luogo, il luogo per eccellenza, il luogo di tutti: la Terra. E così dopo il lungo spaesamento hanno ritrovato la Terra, che è diventata la nuova eu-topia – il buon luogo – per tornare a scrivere un grande racconto collettivo. Attorno al capezzale della madre Terra malata, hanno ritrovato un nuovo legame, una nuova fraternità e una nuova religio, e, per tanti, un nuovo senso del sacro. Il primo sacro nacque, nell’aurora delle civiltà, dall’esperienza del mistero e del tremendum, legata alla scoperta dell’esistenza di qualcosa di invalicabile e di inviolabile. Per molti di queste e questi giovani, di queste ragazze e ragazzi, la malattia della Terra è stata il nuovo tremendum, il nuovo mistero e il nuovo limite invalicabile; quindi una nuova ierofania (manifestazione del sacro), epifania di una esperienza originaria e fondante, un nuovo mito dell’origine che li ha legati alla Terra e tra di loro. C’è molto di religioso e di sacro in questi movimenti ambientalisti, anche se a loro (e a tutti) mancano le categorie per comprenderlo. Hanno sentito venir meno la "terra ideologica" sotto i loro piedi, e invece di sprofondare si sono ritrovati in una terra nuova, che hanno sentito e vissuto come la terra promessa per cui valeva la pena continuare a camminare nel deserto e non arrendersi. Hanno scoperto la terra promessa nella Terra di tutti. Ogni nuovo inizio è polivalente e ambiguo; questo bel mattino ancora informe potrà generare una stagione di autentica spiritualità, erede e continuatrice delle grandi narrative religiose e dell’umanesimo biblico ebraico-cristiano. Ma potremo anche ritrovarci in una terra popolata da totem e tabù post-moderni, gestiti da sciamani e aruspici "for-profit". Ora non possiamo dirlo; ciò che è certo è che la fine delle ideologie non ha completato il processo di "disincanto del mondo". Il mondo è ancora incantato se lo sappiamo guardare con gli occhi dei giovani. Il senso religioso degli anni a venire dipenderà anche da come le religioni tradizionali sapranno leggere e interpretare questa nuova primavera spirituale, se a prevalere sarà la paura o la fiducia.

Non stupisce allora l’alleanza che si è venuta a creare tra questi giovani e un ottantatreenne, papa Francesco, sentito dalla maggioranza come amico e punto di riferimento etico. Infatti, mentre nel ’68 la Chiesa era parte di quel mondo vecchio che si voleva far crollare, oggi la chiesa di Francesco è parte essenziale del nuovo che emerge. La Laudato si’ ha anticipato questi movimenti giovanili e ha fornito a molti il quadro culturale e spirituale di riferimento per il nuovo che sta accadendo. Nella Terra lasciata desolata dalla fine delle ideologie, molti abbiamo pensato di riempire quel vuoto enorme promettendo ai giovani le "tre i" – Inglese, Informatica, Impresa –; loro ci hanno detto che questi obiettivi erano troppo piccoli, e si sono inventati l’umanesimo delle "tre F" – FridaysForFuture. I giovani del 2019 ci stanno però lanciando anche altri messaggi, sebbene i segnali che emettono siano ancora deboli – i segnali deboli sono sempre quelli più importanti. Quanto sta avvenendo in Cile, in Libano, in Francia, in Italia, ci dice, tra l’altro, che la diseguaglianza è un’altra forma di CO2 che se supera un certo "grado" non è più tollerabile. Anche se la dimensione economica di questo variegato movimento giovanile è meno enfatizzata di quella ecologica, la grande sfida del XXI secolo sarà tenerle assieme. Ed è qui si coglie il senso dell’evento The Economy of Francesco (L’Economia di Francesco, a fine marzo 2020), un processo avviato per offrire ai giovani una patria ideale (Assisi) da dove partire per trovare un rapporto integrale con l’oikos. Una nuova ecologia è possibile solo insieme a una economia nuova – se l’oikos è uno solo, non è né concepibile né realizzabile una ecologia integrale senza una economia integrale.

La sostenibilità del capitalismo è multidimensionale. A quella più strettamente ecologica si deve dunque aggiungere immediatamente la dimensione della diseguaglianza e quindi delle varie forme di povertà che continuano a gridare giustizia. Non possiamo allora concentrarci solo sull’aspetto più urgente e visibile della insostenibilità (quella dell’ambiente naturale) e dimenticare le altre, dalle quali in fondo dipende. Ad esempio, per le organizzazioni della società civile nate negli anni e decenni passati attorno alle sfide delle povertà e dell’inclusione sociale, oggi sta diventando più semplice sopravvivere e crescere accedendo ai finanziamenti pubblici per combattere il cambiamento climatico, e così rischiano di subire una mission shift (un cambiamento di obiettivi) guidata dagli incentivi pubblici e privati. Il grido della Terra non può e non deve coprire il grido dei poveri, ma amplificarlo. Le insostenibilità del nostro mondo sono dunque molte. Accanto alla CO2 della diseguaglianza c’è anche una crescente insostenibilità di una certa cultura e prassi manageriale delle grandi istituzioni economiche e finanziarie. Mentre da una parte si annuncia, spesso sinceramente, una politica aziendale più attenta all’ambiente naturale e, qualche volta, anche all’inclusione sociale, parallelamente i lavoratori sono schiacciati da uno stile manageriale che chiede loro sempre più tempo, energie e vita, dove – anche grazie alle nuove tecnologie – è saltato ogni confine tra tempo di lavoro e tempo di non-lavoro, dove le imprese cercano e spesso ottengono il monopolio dell’anima della loro gente. Non può reggere a lungo una nuova generazione che da una parte chiede al sistema una nuova sostenibilità e un rallentamento nello sfruttamento della Terra per lasciarla "respirare", e dall’altra quando entra nei luoghi di lavoro è sottoposta a ritmi insostenibili e accelerati che non li lasciano respirare.

Non basta rinunciare o smorzare la massimizzazione del profitto per essere sostenibili; anche se l’impresa decide di massimizzare altre variabili oltre al profitto, finché non libera spazio e tempo per i suoi lavoratori non sarà mai un ambito di vita davvero a misura di persona, amica della gente e della Terra. Il primo problema della "massimizzazione del profitto" è la categoria di massimizzazione, che resta un problema anche quando ad essere massimizzate sono altre cose. Se quindi le imprese non allentano i rapporti interni di lavoro, se non liberano e ridonano tempo e vita ai lavoratori, se non si ritirano dai territori dell’anima che in questi anni hanno occupato, è impossibile che riescano all’esterno a rispettare e salvare il pianeta. La sostenibilità relazionale, profondamente legata alla sostenibilità spirituale delle persone (lo spirito vive solo se riesce a salvare luoghi di libertà e di gratuità "non massimizzati"), sarà un grande tema del mondo del lavoro dei prossimi anni. C’è una frase del profeta Gioele spesso citata in questo anno che si sta chiudendo da papa Francesco: «I vostri figli e le vostre figlie diventeranno profeti, i vostri anziani faranno sogni» (3,1). Una frase splendida, che solo un profeta poteva scrivere. Oggi la potremmo leggere anche così: i giovani faranno profezie se gli anziani faranno sogni. Non abbiamo lasciato ai nostri figli e alle nostre figlie soltanto un pianeta depredato, surriscaldato e inquinato; abbiamo lasciato loro anche un mondo impoverito di sogni grandi e collettivi. Il primo dono che possiamo fare ai nostri giovani è ricominciare a sognare. È di questa ricchezza che hanno davvero bisogno.

l.bruni@lumsa.it