Opinioni

La linea di Nato e Usa nei confronti della Russia. Il fuoco sempre riattizzato

Giorgio Ferrari giovedì 3 dicembre 2015
Forse è la lente con cui guardiamo le cose a essere usurata, il nostro sguardo strabico, le categorie che adoperiamo vecchie, superate. Qualcuno però dovrebbe spiegarci le ragioni di quel concentrato di sventatezza tattica, superficialità politica e ostinazione da superpotenza unica di cui è responsabile il primus inter pares del blocco atlantico, ossia gli Stati Uniti, che ha indotto la Nato a rivolgere proprio ora un invito formale al Montenegro affinché faccia il suo ingresso quale ventinovesimo membro dell’Alleanza. Perché avviare le procedure di ingaggio del Paese balcanico in un momento come questo equivale a suscitare l’immediata, speculare e dura risposta della Russia. Certo, l’invito della Nato al Montenegro non è scaturito nel corso di un pomeriggio: la procedura era in fase di conclusione e il dialogo già avviato, ma ci sono almeno due considerazioni che s’impongono anche a chi, come noi, non ha certo pregiudizi negativi sul Patto che ha saputo presidiare le libertà europee. Innanzitutto, ogni volta che l’Alleanza atlantica corteggia o, ancor più, aggiunge un nuovo membro al proprio “cartello” la reazione di Mosca non si fa attendere: pensiamo al Blitzkrieg in Georgia del 2008, quando Putin fece intervenire massicciamente l’esercito, l’aviazione e la marina per difendere l’Ossezia del Sud, spingendosi a pochi chilometri da Tbilisi e spegnendo – fino a oggi, per lo meno – le velleità georgiane di formulare la richiesta di adesione alla Nato. L’anno successivo vi entrarono Albania e Croazia, primo tassello insieme alla Slovenia di quel puzzle balcanico che la Nato con la guerra condotta contro Belgrado stava ricomponendo a proprio vantaggio.Ma di fronte alla dichiarata propensione dell’Ucraina a entrare anch’essa a pieno titolo nel blocco atlantico la reazione di Mosca ha condotto in breve tempo alla situazione che conosciamo: uno stato di guerra a seguito dell’annessione della Crimea nel 2014 e di una guerra a bassa intensità (ma a volte neanche tanto) nel Donbass, precariamente tamponata dagli Accordi di Minsk che comunque ha avuto l’effetto di modificare alla base la dottrina militare russa, sostituendo il dettato del 2010 (strettamente difensivo) con una nuova formulazione che elenca in 11 punti gli opasnosti – letteralmente: i pericoli – che minacciano la Federazione e testualmente afferma che «La Nato è la minaccia primaria». Non bastasse, giusto ieri a Bruxelles il segretario generale Jens Stoltenberg, è tornato a parlare di un possibile futuro ingresso nell’Alleanza della Georgia, della Bosnia Erzegovina e della Macedonia. Né possono bastare le assicurazioni del segretario di Stato Kerry («La Nato è un’alleanza difensiva che esiste da 70 anni, un’alleanza difensiva con una base ampia, finalizzata a portare sicurezza. Non è una minaccia contro nessuno e non è focalizzata sulla Russia né su nessun altro») o quelle di Stoltenberg («Ogni nazione ha il diritto di decidere il suo cammino e la propria organizzazione in termini di sicurezza»); la diplomazia sovrabbonda di parole, e anche quelle russe hanno un peso, visto che il portavoce del Cremlino annuncia subitanee retaliatory actions, affermando che «la continua espansione del Trattato del Nord Atlantico verso est potrebbe portare a misure di ritorsione da parte della Russia». E qui, con la seconda considerazione, torniamo al quesito iniziale: nei tempi andati l’assassinio dell’erede al trono d’Austria e Ungheria a Sarajevo innescava la Grande Guerra, l’attacco a Pearl Harbor provocava l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, l’attentato alle Torri gemelle la corrispondente reazione americana in Afghanistan. Nessi di causa-effetto a cui eravamo abituati e che rendevano plausibili – anche se dolorose – le risposte militari. Ma in questo risiko asimmetrico che coinvolge Russia, Turchia, Stati Uniti e Nato attorno al teatro ribollente del Daesh certe categorie evidentemente non sono più valide. Resta immutata tuttavia la domanda: perché gettare benzina sul fuoco? Perché spingere oltre misura quella che ha tutta l’aria di una provocazione nei confronti di un partner fondamentale per la soluzione del conflitto mediorientale come Putin?