Opinioni

Le parole del Papa. Il fuoco delle domande. L'argilla della risposta

Marina Corradi mercoledì 21 febbraio 2018

Come un fuoco di fila. Come granate, lanciate una dopo l’altra, fragorose, a raffica. Nessun consesso di adulti riuscirebbe a inanellare domande così. Nessuna platea di giornalisti dei media internazionali saprebbe fare domande tanto difficili. Perché nessuno sa porre le questioni essenziali della vita, come lo sanno fare i bambini.

E la trascrizione del dialogo del Papa con un gruppo di ragazzi di un orfanotrofio rumeno, avvenuta in gennaio in Vaticano e pubblicata due giorni fa, si legge tutta d’un fiato. Perché mia madre mi ha abbandonato? Perché noi abbiamo avuto questa sorte, di essere orfani? Dov’è ora il nostro amico che è morto l’anno scorso? Che senso ha andare in Chiesa, se appena usciamo ricominciamo a litigare fra noi come prima? Tutte domande segnate da una innocenza e una radicalità assoluta, senza infingimenti, senza mediazioni. Il male, insomma, perché? Quella domanda immensa che ci si pone da bambini e adolescenti, e che poi, crescendo, spesso schermiamo, come se fosse cosa ingenua.

Salvo ritrovarla, quella stessa inestinguibile domanda, di fronte a un lutto, a una malattia, a un grande dolore. Quando la sofferenza ci mette a nudo, e tutto ciò che ci raccontiamo per distrarci, per rassicurarci, crolla come un castello di carte. Davanti a alcuni di questi “perché”, Francesco non ha cercato a tutti i costi una spiegazione. Non ha fatto mostra di sapienza dialettica o teologica. Sai, ha detto a un ragazzo, «ci sono “perché” che non hanno risposta. Per esempio: perché soffrono i bambini? Chi può rispondere a questo? Nessuno». Come chinandosi di fronte alla sofferenza di quei figli abbandonati, inginocchiandosi davanti al dolore di tante infanzie passate in stanze fredde e vuote. Umanamente, certi “perché” non hanno risposta, ha ripetuto.

E ha aggiunto: il tuo “perché” è di quelli, che hanno solo una risposta divina. Ha evocato il cieco del Vangelo, e l’affannarsi dei discepoli a domandare: per quale ragione è nato così? Per colpa sua, o dei suoi genitori? (Noi uomini cerchiamo sempre un colpevole, uno da additare, perché ci sia un responsabile, perché il male senza alcuna ragione apparente ci tormenta ancora di più). «No, non è colpa sua né dei suoi genitori, ma è così perché si manifestino il lui le opere di Dio», rispose Gesù quel giorno. Ha spiegato Francesco ai bambini rumeni: «Vuol dire che Dio, davanti a tante situazioni brutte in cui noi possiamo trovarci fin da piccoli, vuole guarirle, risanarle, vuole portare vita dove c’è morte».

È dunque un “perché” che si capisce dopo, alla fine. Nell’attimo del lutto e della morte, quei “perché” non possono avere una risposta: non lo ha il pianto della madre che ha perso un figlio, non lo ha il grido del malato immobile per tutta la vita su una sedia a rotelle, o il lamento di chi non ha di che sfamare i suoi bambini. Davanti a certo male non si può, al momento, rispondere, ma solo compatire, e piangere insieme. Come Francesco ha pianto, alla domanda di un figlio abbandonato. Non ora, ma alla fine, capiremo: quando vedremo tutto il dolore e la morte colmati dall’abbraccio di Cristo. (E sarà forse più immenso, quell’abbraccio, quanto più grande era la voragine che il dolore aveva scavato). Perché bisogna che lasciamo lavorare Dio. Basta poco, ha detto il Papa. Basta bussare e dire: «Tu mi ami e io sono peccatore.

Abbi pietà di noi. Gesù ci dice che se facciamo così, torniamo a casa perdonati». Così Dio ci trasforma, ha aggiunto: «Dio ci lavora il cuore, è Lui, e noi siamo lavorati come l’argilla nelle mani del vasaio». Bisogna che lasciamo lavorare Dio, dargliene il tempo. Le mani del Vasaio ora stringono, torcono, ora arrotondano, accarezzano. Noi non capiamo. Potessimo essere docili come l’argilla, nel lasciarci plasmare. Bisognerebbe, per una grazia, fidarsi, totalmente. Come neonati nelle braccia della madre, che non sanno nulla, ma dormono in pace sul seno, riconoscendo quel battito del cuore.