Opinioni

Le sentenze creative e la crisi dello Stato di diritto. Il fantasma di Montesquieu

Francesco D'€™Agostino venerdì 18 dicembre 2015
Le sentenze creative e la crisi dello Stato di diritto Fino all’avvento della modernità la funzione giurisdizionale è sempre stata ritenuta intrinsecamente connessa all’esercizio del potere politico. Il buon sovrano era qualificato tale soprattutto quando veniva considerato un giusto giudice, come nei famosi esempi di Salomone o di Traiano (che, ci ricorda Dante, arrivò a rimandare la partenza per la guerra per rendere prima giustizia a una povera vedova). Poi, agli inizi dell’epoca moderna, matura e si impone, grazie all’opera di Montesquieu, la dottrina della separazione dei poteri: da allora ci siamo abituati a pensare che governanti e legislatori non possano fare i giudici e che i giudici non possano fare le leggi, ma solo applicarle, né emanare decreti politicamente vincolanti, sottraendone la potestà ai governanti. Le Costituzioni moderne hanno tutte recepito questa dottrina e tale ne è stato il successo che abbiamo lentamente perso la consapevolezza della sua fragilità e delle intrinseche - e a volte insuperabili - difficoltà che ad essa si riconnettono, tutte riconducibili al fatto che il potere, ogni potere, tende per sua natura a andare al di là dei suoi legittimi limiti. La teoria di Montesquieu, infatti, auspica, ma non garantisce l’effettività della divisione dei poteri: così come abbiamo numerosi esempi di prevaricazione del potere esecutivo nei confronti del potere legislativo e giudiziario, ben conosciamo ad esempio quanto spesso il potere legislativo intervenga (più o meno subdolamente) per istituire magistrature speciali. Né possiamo nasconderci le grandi responsabilità del potere giudiziario quando, facendo violenza ai criteri che regolano l’interpretazione delle leggi, opera di fatto o per svuotarle di senso, rendendole di fatto inapplicabili, o per potenziarne la valenza molto al di là dell’intenzione del legislatore che le ha emanate.  Sono molti anni che in Italia non si assiste a una reale prevaricazione del potere legislativo e del potere esecutivo nei confronti del potere giudiziario: ci sono stati casi anche preoccupanti, che sono però rimasti marginali e sono stati facilmente riassorbiti. Si stanno invece moltiplicando, con notevole velocità, le prevaricazioni della magistratura nei confronti degli altri poteri e almeno su due piani diversi. Il primo è quello della delegittimazione morale che producono quegli interventi della magistratura (inquirente, ma anche giudicante), che in forza di una spesso precoce e totale mediatizzazione invece di garantire la presunzione di innocenza (dell’indagato, dell’imputato e perfino del condannato con sentenza ancora non definitiva) attivano nell’opinione pubblica plateali e ingiuste dinamiche di presunzione di colpevolezza, stroncando molto spesso l’immagine degli inquisiti (che sono il più delle volte, ma non esclusivamente, uomini politici, per il quali l’immagine è quanto di più prezioso possa esserci). Il secondo piano è ancora più grave: è quello dello stravolgimento a opera di magistrati di norme a forte rilevanza etica. Di questo stravolgimento si è resa diverse volte responsabile la stessa Corte Costituzionale, da ultimo amputando grossolanamente molti articoli della legge sulla procreazione medicalmente assistita e non rispettando, quindi, gli orientamenti bioetici emergenti da questa legge, orientamenti discutibili quanto si vuole, ma di esclusiva competenza parlamentare. Né si dimostra da meno la magistratura ordinaria, che sta di fatto riconoscendo effetti giuridici in Italia a pratiche di maternità surrogata realizzate in altri Paesi, ma proibite dalla nostra legge e ben lontane dal nostro senso comune, e sta moltiplicando sentenze che arbitrariamente alterano la categoria dell’adozione, dando così un indiretto, forte rilievo alla coniugalità omosessuale, che il nostro ordinamento non riconosce.  In buona sostanza una parte molto attiva e determinata della magistratura pretende ormai di essere la vera rappresentante dell’autentica coscienza etica del Paese e procede ormai per 'sentenze creative'. Tra i risultati perversi di questa pretesa c’è una vera e propria intimidazione del Parlamento, che anziché varare, quando necessario, leggi a forte contenuto etico, chiedendosi come esse poi verranno interpretate (e quindi alterate) dalle sentenze dei giudici, prende tempo e ne rimanda l’approvazione. La sensazione di sconforto che emerge da questo stato di cose è altissima, soprattutto da parte di coloro - e noi tra questi - che credono ancora allo Stato di diritto e alla separazione dei poteri.