Opinioni

Mondo arabo. Fallimento (per ora) dei partiti islamisti: non totalitari ma inefficaci

Francesca Ghirardelli giovedì 25 luglio 2019

Non si trovavano lì, almeno non dall’inizio, nelle piazze in fermento delle rivolte arabe, quando giovani pieni di rabbia, insieme ai liberali musulmani e a quelli laici e alle forze di sinistra, manifestavano la loro esasperazione contro regimi che parevano al potere per restarci in eterno. I movimenti islamisti non sono stati tra gli attori principali che hanno dato il via alle sollevazioni popolari del 2011. Si sono uniti dopo. E quando le rivolte si sono rivelate un’occasione senza precedenti per i gruppi di opposizione di tutto lo spettro politico nei diversi paesi della regione, sono stati gli islamisti a sfruttare al meglio la breccia aperta. I Fratelli Musulmani, la formazione più antica, fondata in Egitto 90 anni fa, e chi da loro ha preso ispirazione come Ennahda in Tunisia e il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo in Marocco, si sono presentati alle urne e hanno vinto. Dopo decenni di emarginazione, i principali attori politici islamici hanno avuto l’opportunità di governare. Com’è andata? A otto anni di distanza si sono diradati i timori dell’Occidente sul modo in cui l’ideologia islamista si sarebbe potuta manifestare alla prova di governo: per la cronaca, nessuna di queste formazioni ha mai dichiarato la rigida applicazione della Sharia. Oggi, però, i partiti islamisti sembrano perdere sensibilmente in popolarità. Lo sostiene un sondaggio appena pubblicato da Arab Barometer e BBC Arabic, per i quali «la fiducia nei principali movimenti islamisti della regione, cioè attori come la Fratellanza Musulmana, Hamas e Hezbollah, dopo le rivolte arabe è in declino».

In Tunisia si tratterebbe di un calo del 24% dal 2012-2013, in Marocco e Giordania del 20%. In Palestina, la fiducia in Hamas, che governa a Gaza, sarebbe passata dal 45 al 24%, mentre in Egitto il calo si limiterebbe al 4%. «Parliamo di una regione dove condurre sondaggi è indubbiamente più complicato che in Europa. I risultati devono essere presi con buon senso, tenendo conto del contesto di ciascun paese e anche del fatto che ciò che è stato avviato nel 2011 è un processo rivoluzionario a lungo termine» avverte Gilbert Achcar, politologo libanese della prestigiosa School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra. «Detto questo, non è per nulla sorprendente che i partiti menzionati abbiano visto la loro popolarità declinare. In alcuni casi è per ragioni politiche, come a seguito dell’esperienza al potere di Ennahda in Tunisia e della Fratellanza Musulmana in Egitto, mentre per Hezbollah è stata la partecipazione alla guerra in Siria a danneggiarne l’immagine».

Giungere al potere sull’onda di grandi entusiasmi e alte aspettative di cambiamento, può essere rischioso: «Quando è chiaro che il cambiamento non si verifica come in Tunisia, è ovvio che si perda consenso. Ma la reputazione dei partiti politici è ovunque scarsa in questa fase, nel mondo arabo come altrove», commenta Francesco Cavatorta della canadese Laval University, impegnato di recente nello studio dei comportamenti elettorali e nel divario laici-islamisti nella regione. Il ricercatore è convinto che a contare più di tutto in termini di consenso siano i risultati socioeconomici: «Da questo punto di vista, avere avuto al potere gli islamisti o altri non sembra avere fatto una grande differenza. Hanno agito in generale male sul fronte economico, ma nessuno avrebbe fatto meglio alle prese con questa sfida. Le performance negative non sono necessariamente da imputare agli islamisti: la situazione economica del mondo arabo è tale che servirebbero anni per ricomporla e sarebbero necessarie politiche diverse nel contesto internazionale».

Proprio una profonda crisi socio-economica, con alti tassi di disoccupazione, è stata all’origine dello scoppio delle proteste nel 2011. «La Fratellanza Musulmana non ha mai avuto un programma chiaro di governo né alcun progetto economico alternativo», prosegue Gilbert Achcar della Soas. «Si è agito in continuità con le politiche dei regimi precedenti, per questo gli islamisti non sono riusciti a risolvere alcun problema. Non erano preparati per governare. Lo stesso si può dire dell’esperienza di Hamas, che conserva il proprio elettorato e cerca di privilegiare in vari modi la propria base sociale, ma se oggi si svolgessero elezioni libere nella Striscia, Hamas non avrebbe abbastanza supporto per vincere», prosegue Achcar che, proprio alla luce di questi insuccessi individua «l’antidoto migliore contro l’uso in politica della religione secondo un’interpretazione fondamentalista: è quello di lasciare che queste forze, una volta giunte al potere, governino. È molto più efficace farle provare e poi fallire, piuttosto che ricorrere, come in Egitto, ad altri strumenti tra cui i colpi di stato militari». Tanto più che rimaneggiamenti legislativi profondi sulla base dell’identità religiosa non si sono realizzati: «In Tunisia non è accaduto, non è stato possibile, ora non ci sono le condizioni né una maggioranza sufficiente, perché il governo è di coalizione», spiega Francesco Cavatorta. «In Marocco su questi aspetti a decidere è il re, non il governo, mentre in Egitto i Fratelli Musulmani non hanno avuto il tempo necessario e, tra l’altro, in quel paese la legislazione è già ispirata a principi religiosi». Dunque gli islamisti si sono trovati anche a deludere il proprio elettorato più conservatore che avrebbe ben accolto qualche intervento sui temi identitari.

«Le dinamiche istituzionali e di coalizione, alla fine, hanno obbligato anche i partiti islamisti ad entrare nei tipici meccanismi della politica», prosegue Cavatorta che individua qui una delle «lezioni più importanti delle Primavere Arabe: i partiti islamisti possono anche vincere le elezioni ma non per questo distruggono il sistema politico in cui si inseriscono. La grande paura che minassero le fragili basi democratiche si è rivelata infondata, anzi alla creazione della democrazia istituzionale ha contribuito proprio la loro partecipazione. Così è stato in Tunisia e Marocco». Di fronte ai dati sull’attuale declino delle forze islamiste, Cavatorta aggiunge poi un ultimo elemento: «In fondo non li si può davvero giudicare perché hanno governato per poco tempo, e dove sono rimasti più a lungo al potere, cioè in Marocco (dal 2012), è il re che prende le decisioni importanti. Mi asterrei perciò da un giudizio netto». Esiste, tuttavia, una pecca certa. «È il problema di fondo dell’Islam politico: gli islamisti hanno peccato di presunzione brandendo il tema della moralizzazione, convinti, da bravi populisti quali un po’ sono, che bastasse mettere piede nei diversi ministeri per cambiare tutto in maniera rapida, mentre era evidente che non sarebbe andata così. Quando poi ci si ritrova alla prova dei fatti, si è costretti a cambiare messaggio finché non si somiglia a tutti quelli che sono venuti prima di te». Nel frattempo le aspettative create sono diventate enormi. E a quel punto, che sia in un seggio elettorale o rispondendo al sondaggio di turno, la fiducia e il consenso vengono meno.