Opinioni

Teorizzazione sconcertante. Il diritto di morire peggiore incubo della post-modernità

Francesco D'Agostino sabato 3 gennaio 2009
Sono sinceramente convinto che una legge ampiamente condivisa sulla fine della vita umana sia, nell’Italia di oggi, opportuna bioe­ticamente e necessaria biopoliticamente (ne ho scritto diverse volte sulle colonne di que­sto giornale). E non mi turba troppo nemme­no l’espressione ' testamento biologico': è tutt’altro che corretta, ma ciò che conta non è il colore o la grafica dell’etichetta che si vuole incollare su di una scatola, quanto il contenu­to di questa. Quando però leggo un articolo, scritto per pe­rorare un 'referendum sul diritto di morire', come quello che Luca e Francesco Cavalli-Sfor­za hanno pubblicato su Repubblica del 2 gen­naio (ma il nome che conta mediaticamente è quello del padre, Luca, illustre genetista), vengo preso da un profondo sconforto: se que­sto è il livello della riflessione su questioni cru­ciali come quella della fine della vita umana è forse meglio fermare ogni dialogo, imporre a tutti (me compreso, ovviamente) adeguate pause di riflessione, esigere da tutti i bioetici­sti un severo sforzo di onestà intellettuale. Infatti, con chi ragiona come ragionano i due Cavalli-Sforza è davvero difficile intendersi, non solo in merito ad una possibile, saggia leg­ge sulla fine vita, ma perfino sui più elemen­tari concetti di bioetica: come dialogare con chi ritiene «ridicole» le opinioni altrui (quelle di chi, come ad esempio il sottoscritto, non rie­sce a trovare un fondamento a un preteso «di­ritto di morire»), con chi si inventa ( perché questa è la parola esatta) che i propri avversa­ri ritengano «reato» il suicidio, con chi quali­fica alla stregua di un «sadismo senza nome» la doverosa assistenza ai malati in stato vege­tativo persistente (da essi scorrettamente de­finiti in «coma vegetativo permanente»)? Da due scienziati ci si aspetterebbe un lin­guaggio corretto, un’argomentazione lucida e fredda e soprattutto la più rigorosa compe­tenza nella materia. Così non è per i due Ca­valli- Sforza, che sono talmente convinti di poter sostenere che ogni uomo abbia un di­ritto insindacabile a «farla finita» (!) «qualun­que fosse il motivo del suo gesto» (!), che non solo sorvolano lievemente sulla plurisecola­re riflessione filosofica (e non esclusivamen­te religiosa!) sul suicidio, ma non dimostrano la benché minima attenzione sulla specificità bioetica che la questione della disponibilità della vita è venuta ad assumere nel nostro tempo e che coinvolge il carattere ippocrati­co dell’etica medica (e in particolare la 'fun­zione di garanzia' a favore della vita che i si­stemi sociali moderni assegnano ai medici) e la distinzione complessa, ma necessaria, tra cessazione dell’accanimento terapeutico e eutanasia. I Cavalli-Sforza sono – o almeno sembrano – beatamente ignari della complessità di que­ste questioni, così come sembrano del tutto i­gnari dell’uso statisticamente molto limitato che le persone fanno del testamento biologi­co nei Paesi in cui esso è stato legalizzato: ca­si tragici come quelli di Eluana si ripresente­ranno sempre, perché la decisione di lasciare dichiarazioni anticipate di trattamento viene di fatto assunta solo da una piccola minoran­za di persone. Per ovviare a questa difficoltà (lo dimostra l’esperienza bioetica di altri Paesi), molti che (come i Cavalli-Sforza) si impegna­no con tutte le loro forze per dare lo statuto di diritto umano fondamentale al principio di autodeterminazione eutanasica suggeriscono poi, con elegante noncuranza, di far valere, in mancanza di dichiarazioni espresse di fine vi­ta, l’opinione di un fiduciario, di un tutore o co­munque di un 'decisore', che ritenga di saper 'interpretare' quello che il soggetto decide­rebbe per se stesso, se fosse ancora in grado di decidere. Si giunge rapidamente in tal modo a dare con­cretezza al peggior incubo della post-moder­nità, quello di una definitiva burocratizzazio­ne della fine della vita umana. Sono consape­voli di tutto questo i Cavalli-Sforza? Sono con­sapevoli che il desiderio narcisistico di far co­noscere al pubblico le loro opinioni bioetiche, peraltro fragilissime, sta mandando in fumo il prestigio che Luca Cavalli-Sforza si è conqui­stato in anni di duro lavoro scientifico? Sono consapevoli, scrivendo quello che scrivono, che portano acqua ad un solo mulino, quello di coloro che ritengono ampiamente provato che tutto il dibattito sulle dichiarazioni antici­pate di trattamento abbia una sola, autentica e soprattutto ipocrita finalità, quella di lega­lizzare l’eutanasia?