Opinioni

Verso l'incontro di Assisi. «Il dialogo interreligioso è condizione della pace»

Stefania Falasca sabato 17 settembre 2016
«Sei per la grande causa della pace? Allora non solo parlare di pace, ma fare effettivamente, per quanto dipende da noi, la pace. E pregare per la pace. In realtà, non si può capire il cristianesimo, se non si capisce che in esso la pace ha un ruolo fondamentale. L’amore fraterno dell’artigiano di pace non conosce frontiere, coinvolge le altre religioni e congloba anche gli avversari». Anche l’allora neopatriarca di Venezia Albino Luciani mirava a «creare una coscienza mondiale della pace» partendo dalla «coscienza individuale», secondo il dettato conciliare. All’orologio della storia, cinquant’anni fa, grazie anche alla Pacem in Terris, era suonata l’ora in cui veniva messo a servizio dal Concilio un concetto più profondo di pace. Non più la sola tranquillitas ordinis degli stoici, fatta propria da sant’Agostino e da tutto il medioevo. Non la semplice assenza di guerra o l’effetto di una dominazione dispotica e neppure l’opera della sola giustizia. La pace, come affermato nella Gaudium et spes, è frutto insieme della giustizia e dell’amore e dunque «edificio da costruire continuamente». Da qui l’insistenza sull’educazione alla pace inculcata dal Concilio come «dovere gravissimo», «come estrema, urgente necessità» e condotta da Paolo VI con costanza intrepida. Del resto, nell’indizione della giornata mondiale per la pace, il primo gennaio 1968, papa Montini era stato chiarissimo nel fugare facili e false retoriche sulla pace, dietro le quali si possono celare azioni di sopraffazioni e interessi di parte, elencando i motivi per cui egli era chiamato a ripetere esortazioni, che sono ancora oggi per niente scontate: «Lo facciamo perché questo è dovere del Pastore universale»; «perché la pace è nel genio della religione cristiana, poiché per il cristiano proclamare la pace è annunciare Gesù Cristo, 'Egli è la nostra pace'; 'il Suo è Vangelo di pace'». «Nel nostro secolo è emerso chiarissimo – scriveva ancora Paolo VI – che la pace deve essere l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». È questa la pace che «si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei popoli, una nuova mentalità circa l’uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini». Un lungo cammino è ancora necessario – riconosceva allora Montini – per rendere universale ed operante questa mentalità ed educare le nuove generazioni al reciproco rispetto delle nazioni, alla fratellanza dei popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, in vista del loro progresso e sviluppo». Il suo successore, Giovanni Paolo I, non è stato da meno, seppure la valenza del suo magistero, anche a questo riguardo, è ancora ignorata. Poco prima della sua elezione, nell’agosto del 1978, ricordava la priorità di «propagandare la teologia della pace», di «diffondere una coscienza universalistica, la coscienza cioè che tutti siamo cittadini del mondo e che molti problemi oggi si possono risolvere soltanto su piano mondiale». E terza cosa da fare – aggiungeva – è resistere a tutte le suggestioni, che si oppongono ai principi dell’amore fraterno e dell’universalismo! Resistere anche alle forze centrifughe quali sono il razzismo, l’imperialismo, l’individualismo, il nazionalismo, il terrorismo. Resistere alla tentazione dell’odio». È  questo il tracciato che si ritrova ricalcato in sintesi nell’Evangelii Gaudium di papa Francesco, e portato avanti dal Papa e dalla Santa Sede come priorità, con approfondimento e determinazione. Basta mettere in fila tutti i gesti e i pronunciamenti. E questo è anche il tracciato che dalla Nostra Aetate passa per l’incontro interreligioso della preghiera per la pace di Assisi voluto da Giovanni Paolo II nel 1986, «perché – come ribadisce Francesco nell’Evangelii Gaudium – il dialogo interreligioso è condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto dovere per i cristiani come per le altre comunità religiose», insieme quindi «si assume il dovere di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale di qualsiasi interscambio». A  Cracovia Francesco ha ripristinato anche il 'plurale maiestatis' per un rinnovato messaggio che è arrivato forte e chiaro non solo alle nuove generazioni di ogni latitudine in questo tempo pervaso da nuovo terrorismo e dalle guerre a pezzi: «Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere il terrore con più terrore». È anche questo messaggio diretto alla formazione della coscienza individuale e collettiva che è stato riconsegnato in uno spazio preciso, in un Paese europeo cristiano, dal passato lacerato dalle ideologie totalitarie e dal flagello dei conflitti, come resistenza attiva all’odio, al terrore, alla violenza, ai nefasti totalitarismi di oggi, determinati dal potere dell’idolatria del denaro che impone oggi il suo prezzo di traffici e sangue. E aiuta ad aprire gli occhi di fronte alla propaganda di disinformazione orchestrata per alimentare divisioni. Davanti alla mistificazione delle religioni e agli attentati di regie occulte sistematicamente operanti per minare e distruggere la convivenza tra i popoli, sradicare la ragione, negare la coabitazione pacifica non solo in Europa. Chiamando ognuno alla responsabilità della pace. A partire dai cristiani spesso vittime dei fautori e dei corifei degli scontri civiltà, persino violenti o ostili davanti a gesti concreti di apertura, fraternità e di riconciliazione, segno eloquente di come il messaggio evangelico non abbia ancora «penetrato profondamente il cuore del Popolo di Dio al punto da cambiare riflessi e comportamenti». Una resistenza che fa così distinguere religione e violenza, ideologia e religione. «Non è giusto dire che l’Islam sia terrorista», ha dovuto ribadire ancora Francesco sul volo di ritorno da Cracovia, ricordando che i fondamentalismi esistono anche nel cattolicesimo. «Le religioni hanno la prerogativa di illuminare le coscienze e di promuovere il bene comune e l’edificazione della società, sono fonte di dialogo e di pace perché la fede sincera apre all’altro, genera dialogo e opera il bene; mentre la violenza nasce sempre da una mistificazione della religione stessa che è assunta a pretesto di progetti ideologici che hanno poi come unico scopo sempre il dominio dell’uomo sull’uomo». Con il medesimo pensiero che «Dio vuole l’amore, la fratellanza, l’incontrarsi di tutti i popoli in un’unica famiglia umana», il Segretario di Stato Pietro Parolin, nella più recente intervista rilasciata ad Avvenire, riprendeva l’Angelus del 10 settembre del 1978 pronunciato da Papa Luciani in occasione degli accordi di Camp David, nel quale la preghiera del Papa per la pace si univa a quella leader politici appartenenti a diverse fedi religiose. Luciani aveva accuratamente preparato quest’Angelus nel quale ribadiva la forza dell’umile amore, che nella sua stringente attualità condensa l’odierno magistero: «Di pace hanno fame e sete tutti gli uomini, specialmente i poveri che nei turbamenti e nelle guerre pagano di più e soffrono di più; per questo guardano con interesse e grande speranza al convegno di Camp David. Anche il Papa – affermava Luciani – il quale ha pregato, fatto pregare e prega perché il Signore si degni di aiutare gli sforzi di questi uomini politici. Ma io sono stato molto ben impressionato dal fatto che i tre presidenti abbiano voluto pubblicamente esprimere la loro speranza nel Signore con la preghiera. I fratelli di religione musulmana del presidente Sadat sono soliti dire così: 'C’è una notte nera, una pietra nera e sulla pietra una piccola formica; ma Dio la vede, non la dimentica'. Il presidente Carter, che è fervente cristiano, legge nel Vangelo: 'Battete... Bussate e vi sarà aperto, chiedete e vi sarà dato. Neanche un capello cadrà dalla vostra testa senza il Padre vostro che è nei cieli'. E il premier Begin ricorda che il popolo ebreo ha passato un tempo momenti difficili e si è rivolto al Signore lamentandosi dicendo: 'Ci hai abbandonato, Signore, ci hai dimenticato!'. 'No! – ha risposto Dio per mezzo di Isaia Profeta – può forse una mamma dimenticare il proprio bambino? ma anche se succedesse, mai Dio dimenticherà il suo popolo'. Anche noi che siamo qui abbiamo gli stessi sentimenti – concludeva Giovanni Paolo I – noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre. Non vuol farci del male; vuol farci solo del bene, a tutti. Con questi sentimenti io vi invito a pregare insieme per ciascuno di noi, per il Medio Oriente, per l’Iran, per tutto il mondo». Non è questa la strada che riconduce oggi ad Assisi?